Da un lato montagne sfruttate in modo eccessivo, dall'altro raccontate come spazi incontaminati. La logica disneyniana si è impossessata di molti rilievi
Una riflessione sulla montagna di oggi, spesso schiacciata tra la realizzazione di nuove infrastrutture turistiche e la necessità di promuoversi come culla di una natura "pura", di valli incantate e di tradizioni immutate nel tempo
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.
Montagne e turismo. Turismo e montagne. Ci sono luoghi che decidono di promuoversi per la propria specificità. Che mettono alla ribalta se stessi, il loro vero essere, il loro carattere fatto di storia, tradizioni del passato che attraversano il presente e si proiettano al futuro. Luoghi che hanno un’anima su cui costruire una promozione del self. Che non hanno bisogno di crearsi un’immagine, di mettersi il trucco per apparire. Un modo lodevole e sincero di raccontarsi per quello che si è e di attrarre visitatori che possano scoprire, appunto, le specificità di un dato luogo.
E poi ci sono luoghi – ed è cosa sempre più frequente – che decidono di vendersi come un prodotto. Un prodotto che prevede un processo di trasformazione e di proiezione di un’immagine, rinnegando la materia prima della propria essenza per elaborare un formato nuovo e fittizio in grado di soddisfare le esigenze del turista che viene da fuori. Il quale si aspetta di ritrovare un determinato modello, un determinato prodotto, appunto.
Ciò è vero non solo per molte, moltissime città, oramai, trasformate in tante Disneyland dove a regnare è la finzione, l’omologazione, l’uniformità. Al punto che quel che troviamo in un negozio di Parigi o di Amsterdam lo troviamo anche a Roma o a Venezia. Ma questo processo ha letteralmente investito negli ultimi decenni anche il mondo della montagna.
Secondo un mito irriducibile e duro a tramontare, che affonda la propria ragion d’essere nel sogno di un progresso inarrestabile, la montagna non ha smesso di rincorrere i gloriosi tempi delle vacche grasse degli anni Ottanta. I tempi son cambiati, la crisi climatica ci sbatte in faccia giorno dopo giorno la dura realtà, che in molti ancora (amministrazioni pubbliche comprese, con colpevole inganno per i propri cittadini) si ostinano a negare o a fingere di non vedere. Il finanziamento pubblico di impianti di risalita a quote in cui non nevica se non due o tre volte l’anno e dove la neve è necessario spararla artificialmente è un chiaro esempio di questo volersi ostinare a rincorrere un modello del passato che non regge più al presente. Persino i giorni-neve (quei giorni in cui temperature e condizioni di umidità dell’aria risultano favorevoli a sparare la neve artificiale) si riducono a una manciata l’anno e quindi in quei giorni, soprattutto negli impianti realizzati (anche di recente) a basse quote, bisogna produrre quanta più neve possibile, con elevatissimo consumo energetico e idrico in tempi ridottissimi: ristrettezze di tempo che spesso rendono del tutto insufficienti le quantità d’acqua pur preventivamente raccolte nei bacini d’innevamento.
La montagna rincorre il turista della pianura che vuole divertirsi nel parco giochi dello sci, impalca sui propri pendii un autentico playground, rincorre il modello Disneyland assecondando le logiche del profitto industriale. L’industria dello sci da discesa, valida sicuramente quarant’anni fa ma non più sostenibile oggi, eppure fortemente incoraggiata dalle amministrazioni locali che desiderano ampliare l’offerta costruendo, a suon di milioni di euro pubblici, sempre nuovi impianti, sempre nuove piste, dà vita a quel processo di uniformazione, di omologazione di cui parlavamo poco fa. Montagne diverse connotate dalla presenza degli stessi ingredienti del divertimento, dove si possono trovare le stesse identiche cose e fare le stesse identiche esperienze: l’impianto di risalita, le piste da discesa, il ristorante-bar, il solarium, oggi sempre più spesso la spa, e infine la discoteca all’aperto per l’après-ski. Per vivere l’emozione di un’esperienza standardizzata.
Contemporaneamente la montagna, oltre a rincorrere il modello industriale della pianura per assecondare i desideri del turista che viene da fuori, onde trarre dalla presenza di costui il massimo del profitto – pur in spregio delle risorse uniche e non rapidamente rinnovabili della propria terra, senza alcuna lungimiranza nei confronti delle nuove generazioni –, cerca di costruire anche un’immagine di autenticità di sé, di ciò che la distingue dalla città, ovvero di ciò che in qualche modo la connota come anti-città. Perché il turista è esigente, e se da un lato va alla ricerca del divertimento chiassoso nel parco giochi insostenibile (ma non è affar suo, che è lì per svagarsi) dello sci da discesa, dall’altro è pure alla ricerca di panorami mozzafiato, vette e paesaggi da contemplare, valli incantate, luoghi dalla bellezza paradisiaca, montagne pure, incontaminate.
E gli diverrà necessità, a quel punto, ricercare quel luogo iconico, quella veduta preconfezionata che ha visto su qualche social, da quel punto di osservazione (e quello soltanto) debitamente segnalato, dal quale solo potrà fotografare (magari in un selfie, che è garanzia di presenza) le linee e i profili di quel panorama noto. Perché tu puoi pure avere gli occhi per guardare, ma il collo gira nella direzione in cui la massa vuole che tu lo giri.
La montagna finisce insomma per impalcare un altro mito. Il mito della natura incontaminata, di Heidi, della sacra wilderness, della spensierata leggerezza dove non ha posto l’orizzonte della vita reale fatta di gente che in montagna vive, fatica, lavora. E il passato, le tradizioni, non trovano interesse, in questo racconto, e non hanno pertanto bisogno di essere raccontati per quello che sono o sono stati, ma servono semmai esclusivamente da stimolo vago e lontano per essere ridisegnati a tavolino al fine di costruire il trucco attraverso cui la montagna vuole presentare se stessa. Ecco allora che i più disparati oggetti del passato finiscono per comparire esposti fuori dalle case: attrezzi da lavoro di contadini e allevatori di un secolo fa, vecchi strumenti per muoversi sulla neve, ma anche elementi naturali quali corna di cervo che creano la giusta atmosfera. Una sorta di collezione eterogenea, quasi a voler allestire una contemporanea Wunderkammer fatta per stupire ed emozionare il villeggiante. Nei ristoranti il tocco giusto vien dato dall’ambiente antico (o, meglio, finto antico): vi può comparire un vecchio paiolo in rame vicino a scarponi chiodati o a una mónega in legno, come la si chiamava in Veneto, contenente un tempo le braci con cui si riscaldava il letto. Il tutto per ricreare uno stile d’antan dall’intonazione folkloristica. Un palcoscenico dalla scenografia fittizia su cui il personale potrà allestire allora la propria recita, cercando di rendere credibile la rappresentazione vestendo presunti abiti da antico alpigiano: quegli abiti di stile finto-tirolese e dal gusto rétro che ricerca nel suo immaginario il turista della pianura. Come se un hotel a cinque stelle di una località marittima qualunque elaborasse il cliché di camerieri vestiti da pescatore di un secolo fa (e quale ne sarebbe il vero abito?, verrebbe da chiedersi con Marco Albino Ferrari, Assalto alle Alpi, Einaudi, Torino 2023, p. 99).
A beneficio del turista tutto diviene immagine, tutto si fa finzione, tutto è recita. Persino la storia, il passato, le tradizioni non contano e non servono, se non a favorire suggestioni a partire dalle quali impalcare scenari d’invenzione. E se si guarda alla storia della montagna, ci si limita a richiamare alla memoria solo e soltanto la storia della Prima guerra mondiale: forti, trincee, camminamenti, e ancora musei dove esporre armi, munizioni, divise ecc. Come se prima di quella tragedia la montagna non avesse mai avuto una sua vicenda sociale, economica, umana meritevole d’essere raccontata.
E’ il caso dell’Altopiano dei Sette Comuni. Nel nome dello slow e del green, parole di cui oggi ci si riempie sempre più spesso la bocca, soprattutto tra le fila delle amministrazioni locali che le usano come un paravento, una coperta (ahimè troppo corta per non svelare la realtà delle cose), si perseguono e si sostengono in verità, con finanziamenti pubblici assai onerosi, impianti di risalita a basse quote tesi a favorire – fuori tempo massimo – quell’industria dello sci da discesa a beneficio del turista da fuori. Ma, soprattutto, a beneficio di pochi, visti i costi. Hotel e strutture si fanno sempre più esclusivi: aggettivo, quest’ultimo, tra i più detestabili, di chi è per l’esclusione e vede nel denaro a disposizione del cliente lo strumento principe attraverso cui scremare l’accesso del pubblico alle decantate meraviglie del luogo e ai servizi che in esso si promuovono.
Qui la storia quale strumento per la comprensione di sé non attecchisce. Il proprio passato, le proprie tradizioni, la propria cultura interessa a pochi. Più indietro della Prima guerra non si va. Manca – ed è invocato da decenni da gente del posto e da nuovi residenti dei Sette Comuni arrivati da fuori – un museo etnografico in grado di raccontare, attraverso una narrazione che sappia essere avvincente e stimolante, le specificità reali di questa terra di montagna, fatte di fatica, di rapporto stretto delle sue genti con la terra e con le preziose risorse di quest’ultima. Si potrebbe raccontare di un Altopiano in cui, come in molti altri posti di montagna, la terra era della gente del posto, amministrata dalle vicìnie, in cui si viveva di un’economia basata in larga misura sulle attività del pascolo, il cui fulcro era la struttura della malga per l’allevamento semilibero del bestiame, la produzione del latte e la conseguente lavorazione dei formaggi. Si potrebbe illustrare come funzionava la pratica del pensionatico, che permetteva alle greggi di svernare nella campagna veneta favorendo, così, rapporti con la pianura, con la quale nascevano occasioni di commercio della lana.
Ma determinante per capire il mondo di montagna – e l’Altopiano dei Sette Comuni in questo non fa differenza – è considerare il ruolo centrale che esso aveva nei secoli passati. Se oggi la montagna appare appiattita (si perdonerà l’ossimoro) e subalterna alla pianura, al punto di rincorrerne i turisti impalcando un’immagine fittizia di se stessa, un tempo quella che oggi ci appare come la periferia era in realtà di importanza centrale per l’economia dello Stato (allora veneziano), perché da lì venivano, oltre ai formaggi e alla lana, risorse in realtà ben più importanti: pietra dalle cave, necessaria a sostenere l’industria edilizia delle tante città di pianura, argento e ferro dalle miniere (famoso è ad esempio il caso delle miniere cinquecentesche del monte Enna, sopra a Schio), legname dai boschi. E proprio il taglio e il commercio del legname – legna da opera per costruire, e da fuoco per riscaldarsi durante i rigidi inverni della piccola glaciazione moderna (1550-1850 circa) – rappresentavano un capitolo fondamentale nell’economia montana dei secoli scorsi.
Di tutti questi aspetti, in Altopiano, si occupava un organo amministrativo chiamato Reggenza: una realtà federativa che riuniva i rappresentanti delle sette comunità locali, i cosiddetti Sette Comuni, e ne governava le risorse, gestite, per l’appunto, sotto forma di beni collettivi. Raccontarne la storia, raccontare questa storia in cui le montagne, oggi periferiche, erano centrali, raccontare la stretta interconnessione dei loro abitanti, sarebbe un’occasione meravigliosa per favorire la comprensione e la scoperta consapevole del mondo di montagna e della sue tradizioni alla civiltà di oggi. Lo si potrebbe fare promuovendo percorsi di mobilità lenta sul territorio o allestendo finalmente un museo etnografico dotato di spazi e tecniche espositive e narrative innovative e contemporanee. Le voci che chiedono questo impegno alle amministrazioni locali ancora rimangono inascoltate, mentre gli investimenti pubblici vanno altrove, su percorsi che – ce lo ricorda giorno dopo giorno la crisi climatica che stiamo vivendo – non hanno futuro.
E finisce allora che una località policentrica come i Sette Comuni delle montagne vicentine, di cui Asiago era una sorta di primus inter pares tra gli altri sei (Enego, Foza, Gallio, Roana, Rotzo, Lusiana-Conco), dove la collaborazione e l’interconnessione tra le sette comunità erano principi irrinunciabili e fondamentali, oggi sia stata inglobata, nei fatti, dal comune maggiore. L’Altopiano – contro ogni evidenza del suo passato e della sua storia – è diventato Altopiano di Asiago, in nome di un’attrattiva turistica che basa la propria ragion d’essere sull’omonimo formaggio e sugli impianti (a bassa quota) per le piste da sci, e in esso la politica di promozione si è fatta così miope da non vedere al di là dei confini del corso e della piazza: i luoghi per eccellenza dell’interesse commerciale.
E’ la montagna della sineddoche, che in nome del turismo ha svenduto se stessa, rifiutando la sua storia, le sue radici, e definendo un’immagine fittizia di sé a beneficio del cliente esterno, rinunciando così a capire il valore della propria terra e delle sue risorse anche quale elemento di promozione. Di una promozione, cioè, in grado di partire dalle specificità del luogo. E’ la montagna della sineddoche, dicevamo, che ha scelto di promuovere se stessa come una parte per il tutto. Un sistema solare che ha come centro gravitazionale Asiago. Ma viene quasi spontaneo chiedersi: sistema solare o buco nero?