Quella volta che con Alexander Langer siamo saliti sul ghiacciaio per chiedere l’istituzione del parco internazionale del Monte Bianco
L'AltraMontagna ha deciso di dedicare la giornata odierna ad Alexander Langer, il cui anniversario invita a ripercorrerne la vita, le opere e il pensiero. Il secondo contributo è un ricordo di Enrico Camanni
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.
L’unica volta che gli ho stretto la mano, Alex era spaventato. La sua mano era fredda, intirizzita, avvolta in guanti di lana grezza, simili a quelli che si indossavano d’inverno nei cortei e nelle manifestazioni. Ci trovavamo al Col Flambeau, nel cuore del Monte Bianco, con i piedi sul ghiacciaio e la testa nella nebbia. Qualche fiocco di neve svolazzava imbiancando i capelli.
16 agosto 1989. La funivia ci aveva scaricato in faccia al Dente del Gigante, ma il Dente era sparito. L’estate era sparita. La manifestazione di Mountain Wilderness per il parco internazionale del Monte Bianco prevedeva che le cordate italiane e francesi si incontrassero simbolicamente ai piedi dei pilastri del Mont Blanc du Tacul e unendo i loro corpi in un abbraccio disegnassero sul ghiacciaio la scritta “Pour le parc”.
Eravamo pronti, ma il nebbione dantesco ritardava la partenza.
«I francesi dicono che di là è bello: neanche una nuvola.»
«Tu ti fidi dei francesi?»
«Oggi sì, siamo qui apposta.»
«Allora andiamo, e cerchiamo di non perderci.»
Piccozze ricurve, scarponi di plastica e zaini colmi di striscioni. Inciampavamo nelle corde con i ramponi e faticavamo a dissimulare almeno per un giorno la nostra appartenenza all’olimpo alpinistico. Ogni tanto scappava un “Tornavo dal Capucin, l’anno scorso…”, o un “Voglio fare la Brenva con Alberto, se il tempo si mette a posto”, tanto per chiarire che la passeggiata sulla Vallée Blanche era solo una formalità tecnica nobilitata da un fine ecologico.
Alex camminava chiuso in una K-way visibilmente insufficiente; sotto indossava il maglione della nonna, i jeans di cotone e un paio di pedule da escursionista. Sembrava un pulcino gelato, intimidito dal clima e dall’ambiente severo, anche se non si vedeva niente. Forse proprio per quello.
«E la Bonatti?»
«Beh, quella è piena di chiodi.»
«O sole mio…»
«Ok, ma ci vogliono i friend giusti.»
«E noi li compriamo.»
«Ma sai quanto costano?»
Alex non partecipava alle disquisizioni tecniche, credo non capisse neanche una parola. Se ne stava in disparte con un sorriso smarrito. Tremava un po’ mentre gli aggiustavano il nodo della corda sullo stomaco. Tremava gentilmente, e sorrideva. Era del tutto inadeguato ai nostri discorsi, alle prodezze sottintese, e noi eravamo specularmente inadeguati a lui, il mite combattente, l’unico che prima di correre a disarmare il mondo avesse provveduto a disarmare se stesso.
Sprofondati nell’ovatta grigia, camminavamo in colonna, una cordata dopo l’altra. Non si vedeva a tre metri di distanza, ma bastava seguire la pista e aggirare i crepacci. Sembrava di essere nella grotta delle streghe, dove il treno segue binari invisibili e tu continui a presagire una luce, un incantesimo.
E se i francesi avessero detto il falso?
Sì, questa volta ce l’avevano cantata soave.
Ma come può far brutto alla Punta Helbronner e bello alla Midi?
Invece i francesi avevano ragione e sopra i Satelliti si aprirono nuvole. Le prime guglie apparvero dopo circa mezz’ora di cammino, metafore di granito. Arancioni, meravigliose. Alex inarcò il corpo sulla neve, alzò la testa e sorrise.
Gli parlammo delle pareti che venivano alla luce, suggerendogli storie, nomi, suggestioni, memorie. Volle sapere dei seracchi, oggetti rari dalle sue parti. Lo impressionavano le calotte di ghiaccio spazzate dal vento.
«Da qui si vede la cima del Monte Bianco?»
«No, è nascosta.»
«Va be’, pazienza, me la fate vedere più tardi.»
Alex amava ascoltare e si sapeva meravigliare. Cresciuto nella tenaglia del Sudtirolo, tra odi razziali e nostalgie di altre patrie, desiderava conoscere i mondi che non erano suoi e ammirava ogni forma di sapere. Rispettava le conoscenze, i sentimenti e le debolezze di tutti, tranne la brama di conquista:
«Da cinquecento anni conduciamo una “scoperta” che poi si trasforma in conquista e addirittura in sterminio verso i popoli indigeni del Sud del mondo. Da duecento anni circa conduciamo con intensità crescente una campagna di scoperta e di sterminio verso la natura di cui siamo parte».
Non so in che lettera sia finito. La scritta umana Pour le parc era fatta di tanta gente, tanto che perdemmo il senso dello spazio. Un regista ci disponeva sulla neve in modo tale che non mancassero o avanzassero persone, e alla fine componemmo una teoria di lettere abbastanza grandi da poter essere fotografate dalla funivia e filmate per i notiziari della sera. L’obiettivo politico era raggiunto, e anche quello estetico. Il sole, i pilastri e la luce dei quattromila. Le parc.
Dopo pranzo piegammo gli striscioni, salutammo i francesi e ripartimmo in senso contrario. Ora faceva caldo e il sole fondeva la neve. I ramponi erano diventati inutili. Ricordo che raggiunsi e superai la cordata di Langer poco oltre il Pic Adolphe, dove la via di Salluard taglia il cielo come una prua. Lui si era tolto la giacca a vento e camminava felice con la corda tra le mani. Non era più impaurito, e nemmeno timido; risaliva verso il Flambeau con la gioia del bambino che ha appena scoperto un mondo da amare. Per una volta erano stati gli altri a dare e Alex a ricevere: l’amicizia, il sole, le belle montagne; se ne tornava a casa con una speranza da condividere.
Lui era un portatore di speranza, il mestiere più difficile.