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Attualità

In dialogo con Paolo Cognetti: "La montagna è stata salvifica per alcuni anni. Poi le cose sono cambiate, ora non lo è per niente"

"Il personaggio di Paolo che scappa dalla città e va a vivere in montagna, felice e contento, l’ha disegnato qualcun altro, non sono io". Tante sono le domande che hanno preso forma, dopo che lo scrittore ha raccontato pubblicamente la sua esperienza di depressione e disagio mentale. Ci siamo confrontati con lui su quanto sta vivendo e narrando

di
Andrea Membretti
21 dicembre | 06:00
Questo articolo si rispecchia nei nove punti del Manifesto,
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.

Paolo mi risponde al telefono da Milano, seduto sulla panchina di un giardinetto, al sole di dicembre. Finalmente respira, fuori dal reparto psichiatrico dell’ospedale Fatebenefratelli. Da quello spazio senza cortile e senza balconi dove è stato rinchiuso le ultime due settimane e dove ci eravamo visti solo qualche giorno fa.

Il tono della voce è pacato, non manca l’ironia nel racconto dell’esperienza appena vissuta.

Tante sono le domande che mi sono appuntato, dopo che lo scrittore ha raccontato pubblicamente la sua esperienza di depressione e disagio mentale. Molte di queste sollecitate o proposte direttamente dagli “aspiranti montanari”, ovvero quelle persone che accompagniamo verso le terre alte col servizio torinese “Vivere e lavorare in montagna” e con cui si è aperto un confronto in queste ore proprio sul senso da attribuire a quanto Paolo sta vivendo e narrando.

 

Paolo, un giorno dopo la tua uscita su “Repubblica”, come vivi la reazione delle persone e dei media alle tue dichiarazioni?

La vivo con piacere, mi ci ritrovo. Il messaggio che è uscito rispecchia il mio pensiero e mi fa solo piacere che sia diffuso il più possibile.

 

La tua “confessione” sul disagio che vivi e sul ricovero in un reparto psichiatrico hanno messo in discussione il tuo personaggio pubblico, costruito in questi anni?

Il mio personaggio in parte è responsabilità mia, ma in parte no. Mi hanno disegnato così, come direbbe Jessica Rabbit.

Io non sono mai andato a vivere in montagna e non ho mai detto di averlo fatto. Ho sempre dichiarato di passare alcuni mesi all’anno nella mia baita: nei momenti di massimo entusiasmo erano sei mesi, in quelli di minimo entusiasmo, come quest’anno, solo luglio e agosto. Il personaggio di Paolo che scappa dalla città e va a vivere in montagna, felice e contento, l’ha disegnato qualcun altro, non sono io.

La realtà è quella che ho descritto in questi giorni. Sono contento che il personaggio ne esca ridimensionato e più simile a quello che sono io veramente.

 

Qualcuno ha detto che alla filosofia spetta la diagnosi, all’arte di mostrare la ferita...

Io credo che la scrittura possa essere entrambe: sia filosofia, sia arte. E che quindi possa fare la diagnosi ma nel contempo mostrare anche la ferita.

Alcuni dei miei libri, però, hanno avuto anche una funzione opposta, quella di “consolare gli afflitti”, usando un termine evangelico. In particolare Senza mai arrivare in cima: molte persone mi hanno detto di averlo letto, magari proprio da una corsia di ospedale, e di averne ricavato molto sollievo. Non sono d’accordo con chi pensa che la letteratura debba sempre dare un pugno nello stomaco: a volte invece può aiutare le persone a stare un po' meglio.

 

Il disagio esistenziale, il malessere psicologico che tu stai vivendo e raccontando, riguarda tutti?

No, non tocca tutti. Tocca le persone sensibili, quelle che cercano di fare qualcosa, che partono per un’avventura, che ci provano almeno. “Tutti” ce li ho attorno adesso, a Milano, ma non mi sembrano proprio toccati da questo stesso disagio.

 

E però il tuo ruolo, come personaggio pubblico, può dare visibilità alla tematica del disagio mentale, della depressione, non credi?

L’utilizzo della notorietà è qualcosa su cui mi sono molto interrogato. La notorietà in sé, il fatto che qualcuno mi fermi per strada per farmi i complimenti per i miei libri, non è nulla di eccezionale. Ci sono anche quelli che vengono a cercami in baita, e mi bussano alla porta proprio quando sto uscendo dalla doccia. Può essere una grande seccatura, insomma.

Ma una cosa buona della notorietà è che puoi mandare un messaggio come questo sulla prima pagina di un grande quotidiano e raggiungere molte persone, magari proprio contribuendo a farle sentire meno sole rispetto a problemi come la depressione.

 

Torniamo alla montagna, e ai profondi malesseri urbani: l’idea di una montagna salvifica è solo un mito?

No, io l’ho sperimentata, non è un mito. Solo che non ti salva per sempre. Non è che vai in montagna e sei salvato, a posto per il resto della tua vita. A me ha salvato da una crisi. È stata salvifica per alcuni anni: poi le cose sono cambiate, è cambiato anche il mio rapporto con la montagna. In questo momento non è salvifica per niente.

 

La montagna può anche respingere, insomma.

Sì, può respingere. Sono scappato via l’altra notte. Dopo due settimane di ospedale, avevo intenzione di salire alla mia baita, accendermi il fuoco, bere un whisky, ascoltare la musica. E farmi una notte tra me e me, lassù. Ma a mezzanotte mi sono detto: che cosa ci faccio qua? Ho spento tutto, sono partito e alle due ero nel mio letto, a Milano. Stare su non era quello che avevo pensato, che avevo sperato. Non mi diceva niente. E allora sono andato via.

 

Come l’esperienza che hai vissuto la scorsa estate, quando mi dicevi che hai percepito, a un certo punto, che il bosco per te era diventato solamente bosco, perdendo una parte del suo significato.

Forse è come quel detto zen, molto noto, quello che dice: prima di praticare lo zen per me le montagne erano solo montagne e i fiumi solo fiumi; quando ho iniziato a praticarlo, le montagne non erano più montagne e i fiumi non erano più fiumi, cioè tutto ha assunto un altro significato; ma quando sono giunto alla fine della pratica, le montagne sono tornate ad essere solo montagne, e i fiumi solo fiumi.

Questo potrebbe anche voler dire che sono arrivato al termine della mia pratica, perlomeno con la montagna. Chissà.

 

La natura e la montagna però possono anche curare: ce lo mostrano esperienze come la montagna-terapia.

Sì, è così. Ho accompagnato anch’io un paio di gruppi di montagna-terapia in passato. Vorrei che fossero portate in montagna molto di più le scuole, le classi di bambini, gli adolescenti soprattutto. La scuola-natura sarebbe preziosissima, oltre che un modo per fare economia in montagna nelle mezze stagioni, quando non c’è turismo: primavera e autunno sono le stagioni perfette per queste attività formative e terapeutiche.

 

La montagna per molti però rischia di essere non tanto curativa ma piuttosto compensativa: penso a quei cittadini compressi nelle settimane lavorative stressanti, che poi cercano nel weekend o in alcuni momenti dell’anno una sorta di compensazione, appunto, nel frequentare le terre alte, con la crescita conseguente delle attività outdoor, ad esempio.

Mi dispiace per loro. Io sono riuscito a costruirmi una vita in cui posso andare in montagna anche di lunedì o di martedì. Dipende dalle scelte delle persone, dalle loro possibilità anche; dal riuscire o meno a conquistarti la vita che vorresti.

Questa forse è la cosa più bella che mi è capitata con Le otto montagne, col successo commerciale, diciamo così, del mio libro: che io posso veramente fare la vita che desidero, e questo è il premio più grande che ho ricevuto.

 

In questa vita ci metti anche un’agenda vuota per i prossimi sei mesi?

Sì. Mi piace avere l’agenda vuota. Sapere che oggi non ho appuntamenti, domani nemmeno, dopodomani neanche. Non so neppure quando sarà il prossimo appuntamento.

Ti dico: faccio un progettino la sera prima, un’idea di massima di quello che farò il giorno dopo. Ma poi il progetto vero lo faccio quando apro gli occhi la mattina: magari vado al parco oppure a comprarmi un coltello, sistemo la casa, mi metto a scrivere... ed è bellissimo, per me, vivere così.

 

Il buddismo, a cui so che sei vicino, ci ricorda che la felicità sta nel rifuggire dai desideri...

Io ho tutto quello che mi serve e faccio una vita abbastanza parca. Ho guadagnato soldi abbastanza per comprare una Lamborghini ma mi sono preso invece una Jimmy (un piccolo fuoristrada), e sono contento così. Un desiderio che ho è di andare in Nepal, a maggio, e credo che lo realizzerò. Non credo però di avere una vita guidata dai desideri e non ho desideri irrealizzati che mi rendono infelice.

Il buddismo dice che si può essere felici ovunque, perché fondamentalmente la felicità è qualcosa di interiore: lo yoga lo puoi fare anche in uno scantinato come in cima ad una montagna. Se tu trovi quell’armonia interiore, ecco che essere a Milano o essere sul Monte Rosa non cambia molto. Poi, certo, per noi è più bello essere sul Monte Rosa.

 

La montagna che respinge è un luogo dove c’è povertà di relazioni?

Sì, assolutamente. È così per tutti quelli che ho conosciuto e che sono andati a vivere in montagna. C’è chi è stato su qualche anno e poi se ne è andato, o anche chi ci è rimasto per sempre: per tutti, il problema più grande è proprio quello delle relazioni umane. Magari ti trovi due o tre amici, il rifugista, il pastore, come è successo a me, ma l’integrazione nella comunità è pressoché impossibile.

Se sei abituato alla città, come me che sono abituato a Milano, lì ci trovi tante brutture ma anche tanta umanità. E puoi trovarci le persone che ti piacciono, quelle simili a te, da frequentare, che sono tante. In montagna non le trovi, o fai molta fatica.

Anche per questo è meglio andare a vivere in montagna in coppia: perché se ci vai da solo rischi davvero di trovarti solo. Se invece ti fai una famiglia, allora parti da una piccola comunità, che ti porti dietro. L’amore, ma anche l’amicizia, sono le cose che salvano dall’ostilità della montagna. Io ho un grande amico, Remigio, di cui parlo sempre. Un altro grande amico, che purtroppo è morto. Ma le persone che in montagna posso chiamare amici veri le conto sulle dita di una mano e per fortuna che ci sono loro, altrimenti potrei tranquillamente cambiare valle. Non avrei più motivo di restare lì.

 

La città è lo spazio delle relazioni ma anche quello delle regole, quelle che ti possono costringere, fino alla reclusione in un ospedale psichiatrico. La montagna è ancora lo spazio della libertà?

Sì, l’alta montagna però, non quella dei paesi, dove alla fine le regole sono le stesse che a Milano. Quando imbocchi un sentiero e vai su...

A me l’idea che nel 2024, oggi, tu possa ancora fare questa cosa, camminare per tutto il giorno, senza che ci sia una proprietà privata, un cartello con scritto che di lì non si passa, senza un semaforo, un divieto, ... ecco, passare una giornata così, in totale libertà, per sentieri e prati, tuffarti in un lago, fare il bagno in un torrente, ... questo mi sembra un miracolo, che spero duri ancora a lungo, perlomeno finché vivrò io.

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