24 maggio 1915, l’Italia entra in guerra: Trento città-fortezza si popola di soldati. Tonezzer: “Nel capoluogo difficilissima convivenza con le truppe”
Dopo la dichiarazione di guerra dell’Italia all’Austria-Ungheria, due terzi dei trentini verranno sfollati nell’Impero. In città rimangono dei civili che devono garantire il funzionamento dei servizi. La loro convivenza con i soldati (5 volte di più), acquartierati in tutti gli edifici disponibili, sarà molto complicata, peggiorata dalle terribili condizioni della vita di guerra. La storica Elena Tonezzer: “La fame è estrema”
TRENTO. “Trento ha – si può dire – mutato aspetto. È un affollarsi al Municipio e agli altri uffici pubblici di persone soggette all’obbligo del servizio militare per avere istruzioni sul modo di contenersi essendo la notificazione assai poco chiara”. Descrive così, il giornale Alto Adige, le scene a cui si assiste nel centro trentino dopo la dichiarazione di guerra alla Serbia, il 28 luglio del 1914. La mobilitazione crea nelle strade della città un brulichio di persone, con la stazione ferroviaria che si trasformerà in quelle decisive ore nel teatro di caotici transiti, manifestazioni patriottiche e addii.
Sono scene ben diverse da quelle del maggio dell’anno successivo. Il “tradimento” italiano, culminato con la dichiarazione di guerra all’ex alleato austro-ungarico – e con il Patto di Londra, siglato segretamente (QUI un articolo) – provoca in città, come nei lembi meridionali del territorio tirolese, lo sfollamento della popolazione civile. La città, individuata già da tempo come Città-Fortezza, verrà ben presto ripopolata dai soldati, giunti in gran numero per rimpolpare le forze impegnate negli scontri con il Regio esercito.
“E’ una storia che affonda le radici ben prima della guerra – spiega la storica Elena Tonezzer, curatrice nel 2015, per la Fondazione Museo storico del Trentino, della mostra 'Città fortezza: Trento 1915-1918' – l’Impero aveva infatti individuato delle città fortezze per la loro posizione geografica. In queste, certi terreni urbani non potevano essere edificati e dovevano essere lasciati liberi, così da poter essere utilizzati in caso di guerra”.
“Con il 31 luglio 1914, Trento subisce la prima grande mobilitazione – continua – è il punto di raccolta dei soldati trentini, inviati verso il lontano fronte russo, in Galizia, dove si combatterà la guerra di trincea. L’Italia, al momento, è neutrale. Per Trento, come per la popolazione dell’intero Impero, vige il paragrafo 14, con cui si sospendono i diritti, tra cui quelli di associazione e di stampa. La restrizione dei diritti è un processo che va per scatti, rapidi ma inesorabili. Dal 3 agosto, entra in vigore il Tribunale di guerra”.
Progressivamente la città si militarizza. “A Trento confluiscono migliaia di soldati. L’Italia ha assunto un atteggiamento di vigile neutralità e l’Austria-Ungheria si prepara per l’eventuale apertura di un fronte anche a sud. L’acquartieramento dei soldati diviene via via più massiccio. In città, come in tutto il territorio imperiale, le risorse si concentrano sulle ragioni militari. Si requisiscono gli animali da tiro e diversi edifici. Vie come l’attuale via Verdi vengono popolate dai soldati”.
La dichiarazione di guerra da parte del Regno d’Italia sconvolge la vita dei trentini. Il territorio più meridionale del Tirolo – l’allora Sudtirolo, nome passato, dopo la guerra, ad indicare il distretto di Bolzano – verrà sconquassato dal conflitto. La popolazione in buona parte sfollata all’interno dell’Impero – mentre nei territori conquistati dagli italiani i civili verranno deportati nella penisola – i paesi distrutti dai combattimenti, i paesaggi trasformati dal passaggio della “guerra totale”.
“Per la popolazione l’esplosione della guerra nel fronte meridionale è terribile – prosegue Tonezzer – ognuno, nella propria soggettività, poteva essere più vicino all’Austria o all’Italia. Magari studiava o lavorava in uno di quei Paesi. Era legittimo avere una pluri-identità. Con lo scoppio della guerra, tutto questo subisce una frattura insanabile. Le persone sono costrette a decidere e una minoranza di circa 700 persone abbandonerà l’Impero per combattere in divisa italiana”.
Per i civili, la sorte è appunto quella della deportazione nel cuore dell’Impero. Ma non per tutti i cittadini di Trento (a partire saranno circa 20mila persone, due terzi della popolazione del tempo); la città fortezza, infatti, deve continuare a funzionare. “Quello che accade è lo spostamento di massa dal Trentino meridionale. In tre giorni la popolazione di Trento è costretta a salire su un treno e partire. Si tratta per lo più di madri con bambini, visto che gli uomini sono partiti per il fronte. A Trento possono rimanere coloro che hanno derrate alimentari per i seguenti tre mesi e le categorie necessarie per il funzionamento della città. Tra questi medici, poliziotti, artigiani”.
“La città si riempie al tempo stesso di soldati. I numeri sono impressionanti, il vociare di lingue dei più vari, visto che arrivano uomini provenienti da ogni angolo dell’Impero, di diverse religioni e culture. Trento finisce per avere una popolazione di soldati di cinque volte superiore a quella civile – spiega – oltre a questi, arriveranno poi anche i prigionieri. Si occupano gli edifici, si costringe anche alla coabitazione, spesso forzata e pericolosa. La convivenza con la popolazione civile sarà sempre più difficile”.
La vita in città è scandita dai tempi della guerra. Trento, come il resto dell’Impero, conoscerà progressivamente una sempre più drammatica condizione di fame. “L’impoverimento è impressionante – prosegue la storica – nelle scuole i bambini, che sono dieci volte di meno di quelli presenti nell’ultimo anno scolastico, fanno lezione in aule di fortuna, visto che gli edifici scolastici sono requisiti. Mancheranno i libri e la carta. È la fame, poi, a caratterizzare la vita in città. Nelle stesse classi, nel ’17, i diari raccontano di bambini che svengono. Le insegnanti non hanno nemmeno le scarpe per recarsi al lavoro”.
Le derrate alimentari scarseggiano. La stessa composizione del pane viene severamente definita, ogni ingrediente razionato. “Oltre alle necessità di guerra, a determinare questa difficile situazione nell’Impero è una questione macro-economica. Non esistono infatti degli accordi commerciali tra le due principali realtà dell’Impero, Austria ed Ungheria, sulle esportazioni di grano e patate. Quest’ultima, che produce la maggior quantità di questi due fondamentali prodotti, chiude le esportazioni verso l’Austria. La conseguenza è che mancano le derrate. Ci sono poi degli errori strategici. Iniziare una guerra in primavera vuol dire togliere le braccia dai campi nel momento più importante. Il raccolto del ’14 sarà disastroso e ancora di più i successivi”.
A segnare lo scorrere dei giorni ci sono le festività militari, che finiscono per sostituire del tutto quelle civili. La propaganda utilizza questi momenti per rafforzare il senso di comunità delle truppe. I civili, nondimeno, anche in questo rappresentano il soggetto subordinato nelle esigenze di una città trasformata in caserma. “Si festeggiano le vittorie dell’esercito, si dà enfasi, oltre che al calendario delle celebrazioni imperiali, anche agli eventi militari. Le feste tradizionali, come la fiera di San Giuseppe o il patrono, vengono sospese. La sospensione di San Vigilio, come raccontano i diari, è sentita molto dalla popolazione, che si vede privata di un suo rituale collettivo”.
Oltre ai soldati, pronti a raggiungere il fronte, la città di popola anche di feriti e di prigionieri. “Trento diventa quasi una città-ospedale – spiega Tonezzer – d’altronde è uno snodo ferroviario molto importante, non solo vicino al fronte, ma anche comodo da raggiungere da altre parti dell’Impero. Qui affluiscono pertanto migliaia di feriti: nel 1917 gli ospedalizzati in città sono 12mila, 16mila nel ’18. Sono cifre impressionanti. Un medico trentino, Leopoldo Pergher, ci racconta poi di condizioni drammatiche. I malati sono 2/3 per letto, le medicine scarseggiano, tutte le energie dei pochi dottori vengono concentrate su migliaia e migliaia di feriti. E la popolazione civile, anche in questo caso, è lasciata a sé stessa”.
“Nel caso dei prigionieri, invece, si organizzano dei campi – prosegue – tra questi, uno dei più grossi, è posto nelle campagne di Gardolo. Molti di questi vengono utilizzati in lavori militari o nelle campagne. C’è chi rimane concentrato nei campi, molti invece sono liberi di muoversi. Per questo le autorità, attraverso l’unico giornale rimasto, il Risveglio tridentino, scritto dai militari, esortano la popolazione a non familiarizzarvi. Più che i serbi e i russi, il pericolo maggiore è infatti rappresentato dai prigionieri italiani. Ricostruire il loro rapporto con la popolazione, tuttavia, non è affatto facile, considerando che le notizie della stampa sono condizionate dalla propaganda e dalla censura, che enfatizza ciò che fanno i prigionieri e minimizza ciò che fanno i soldati”.
La gravissima situazione che vive la città di Trento trova nel novembre del 1918 il suo culmine. Le truppe austriache cominciano la ritirata, si attende l’arrivo degli italiani e la “fortezza” piomba nel caos. “La città viene saccheggiata da soldati e civili – racconta la storica – dalle foto conservate, si vedono scene di distruzione come se fosse passato un uragano. I primi giorni di novembre, non a caso, sono rimasti nella memoria popolare come il ‘rebaltón’. Sono giornate pericolose, si costituisce un governo provvisorio proprio per porre argine al caos e formare una sorta di baluardo di ordine. Si invita a non consumare alcolici, a non far uscire i bambini. Ci sono diversi bollettini, tutti conservati dal Museo”.
“Nelle ricostruzioni successive si parlerà anche di danneggiamenti alle infrastrutture da parte dei soldati imperiali in ritirata ma è difficile capire se questo sia davvero avvenuto o sia parte della retorica della redenzione della città. Il governo provvisorio prepara Trento all’arrivo degli italiani, che arriveranno il 3 novembre dal fatidico ponte dei Cavalleggeri sul Fersina. Il giorno dopo, arriverà in città anche il generale della 1ª armata Guglielmo Pecori Giraldi”, conclude.