La genesi della vendetta: 76 anni fa i fascisti esponevano i corpi di 15 gappisti uccisi a Piazzale Loreto
Il 10 agosto 1944 su ordine delle autorità naziste a Milano i militi della Brigata Nera Ettore Muti fucilavano 15 appartenenti al Gap milanese lasciando i corpi esposti l'uno sull'altro per tutta la giornata. L'orrore di quella scena si sarebbe impresso negli occhi della popolazione e avrebbe determinato la scelta dei partigiani, nell'aprile dell'anno dopo, di portare i cadaveri di Mussolini e dei gerarchi proprio in quel luogo
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TRENTO. Si dice che Mussolini, di fronte alla scelta decisa dei nazisti di compiere la rappresaglia dell'agosto '44, avesse già pronosticato le conseguenze nefaste. “Il sangue di Piazzale Loreto – pare aver detto - lo pagheremo molto caro”. Certo è che, al di là di questa presunta affermazione, lo stesso capo del fascismo avrebbe effettivamente pagato lo scotto in prima persona dello sfregio ai 15 gappisti milanesi fucilati e lasciati esposti per un giorno intero nello snodo cruciale del traffico cittadino.
Quella “festa della morte con cui si diede avvio alla vita dell'Italia libera”, come scrisse lo storico Sergio Luzzatto, non fu tuttavia solo l'espressione estemporanea di un protagonismo della masse vessate da vent'anni di regime, da una guerra disastrosa e dalla tragedia dei bombardamenti che batterono il centro-nord del Paese per quasi 2 anni. Era, innanzitutto, la nemesi di una scena rimasta impressa negli occhi della popolazione civile il 10 agosto del 1944, il fatidico e truculento ritorno a un “luogo della memoria” già entrato nell'immaginario popolare milanese e in quello della Resistenza lombarda e non solo.
“Io vidi il nuovo giorno che a Loreto/ sovra la rossa barricata i morti/ salirono per primi, ancora in tuta/ e col petto discinto, ancora vivi/ di sangue e di ragioni. Ed ogni giorno,/ ogni ora eterna brucia a questo fuoco,/ ogni alba ha il petto offeso da quel piombo/ degli innocenti fulminati al muro” (Per i martiri di Piazzale Loreto, Alfonso Gatto)
Era la mattina del 10 agosto 1944, attorno alle 5.45, quando da un autocarro tedesco vengono fatti scendere 15 uomini ancora vestiti in tuta da lavoro. Piazzale Loreto è lo snodo principale della città, un luogo di transito, di raccordo, che collega il centro con la parte nord della città. Non c'è quasi nessuno, tuttavia, quel giorno. La gente si accalcherà solo più avanti, quando i 15 gappisti, passati per le armi in virtù della logica della rappresaglia e sorvegliati dai militi repubblicani della Brigata Muti, che non lasciano avvicinare nessuno, giacciono a terra morti.
Passano gli operai che vanno alle fabbriche, i milanesi e le milanesi che si spostano per andare al lavoro. L'orrore si impadronisce dei passanti, un cartello campeggia sulle vittime insanguinate accasciate l'una sopra l'altra. “Questi sono i gap squadre armate partigiane assassini”, recita. I militi rimangono a fare la guardia tutto il giorno, a nessuno viene permesso d'avvicinarsi, di mostrare pietà; la popolazione, come avvenuto in molte altre piazze italiane, deve guardare. Deve temere la rappresaglia. Questo è ciò che aspetta chiunque collabori o si ribelli contro l'occupante tedesco e il fascismo di Salò.
C'è un salto di qualità nella violenza fascista tra il pre-8 settembre 1943 e il post, tra la guerra combattuta all'esterno (quella simmetrica contro gli Alleati, non certo quella contro i partigiani jugoslavi, greci, albanesi o etiopi) e quella civile e asimmetrica combattuta contro la guerriglia, nelle città come sulle montagne. I fascisti, divenuti più aggressivi, combattono la possibile ostilità della popolazione seminando il terrore. L'esposizione dei corpi diviene una delle armi con cui mostrare il proprio volto feroce, con cui dissuadere dalla collaborazione con i ribelli.
“Il passaggio dalla morte celata alla morte ostentata – scrive lo storico Giovanni De Luna – fu repentino e traumatico; dopo l'8 settembre ritornò, per i fascisti, una prorompente mistica mortuaria che li spinse perfino ad aumentare le cifre dei propri caduti e a considerare la morte arrecata ad altri, aggredendoli, come parte integrante della propria identità collettiva”.
Se nella memoria nazionale, però, riaffiora (dopo decenni di pudore) l'immagine di Mussolini e dei gerarchi penzolanti da un distributore in quella stessa piazza dove vennero lasciati esposti i cadaveri dei 15 gappisti milanesi, l'esposizione pubblica della morte fu eccezione nel movimento partigiano, che predilesse semmai l'eliminazione dei corpi del nemico in virtù della sua considerazione non come italiano bensì come corpo estraneo, intruso da epurare, da cancellare.
All'origine della strage dei partigiani, decisa dai nazisti e perpetrata dai volontari fascisti della Muti, invece, c'era la logica della rappresaglia. A ogni tedesco ucciso dovevano corrispondere 10 italiani, come avvenne ad esempio nel più noto eccidio delle Fosse Ardeatine. L'8 agosto un'esplosione in una via che si dirama da Piazzale Loreto aveva fatto saltare in aria un camion tedesco, provocando il ferimento dell'autista e la morte di alcuni passanti.
Nonostante ciò – e nonostante sulla paternità dell'attentato non ci fosse alcuna certezza, negato anche nel dopoguerra dai membri del Gap milanese – il comandante della polizia nazista in Lombardia Theodor Emil Saevecke diede l'ordine di rappresaglia. Prelevati dalle prigioni, i 15 gappisti vennero fucilati e lasciati sul posto, a ricordare ai milanesi quale trattamento si riserva ai “banditi”. Di contro quei corpi sarebbero assurti a martiri della lotta contro il nazifascismo, generando una vendetta, tutta simbolica, consumata nell'aprile dell'anno dopo.