Dalla montagna che si "accartoccia" alla "vergogna di essere un superstite", la testimonianza della tragedia del Vajont. Diga Vanoi? "Partecipazione pubblica sia attiva"
Cristina Da Rold: "Dobbiamo capire come portare avanti la memoria. Non si tratta solo di raccontare ma anche di capire come fare a lunghissimo termine: ci si dimentica e ci si disaffeziona. La storia c'è e oggi è chiara: la sfida è capire cosa lasciare"". Irma Visalli: "Bisogna impegnarsi e fare qualcosa per cambiare il nostro modo di guardare alla politica. La pista da bob è politica. Tutto è politica e significa qualità della vita. Bisogna disegnare il futuro"
TRENTO. "La mattina ci siamo spostati sul costone della valle del Piave per vedere Longarone". Queste le parole di Marcello Mazzucco, superstite e testimone della tragedia del Vajont nel ricordare quella notte nell'appuntamento de L'AltraMontagna nella cornice del Trento Film Festival. "C'erano solo detriti e macerie, il pensiero è andato ai compagni di scuola, alle insegnanti e agli amici. Sono riuscito a guardare solo qualche secondo, non riuscivo a sopportare la vista".
Ci sono voluti decenni per parlare apertamente di quella tragedia, "vissuti in una bolla di oblio", spiega Mazzucco. "Ci si vergognava di essere superstiti, venivamo guardati in un certo modo perché la tragedia era considerata come un evento naturale e avevamo ricevuto un rimborso. Dopo il monologo di Paolini del '97 sulla diga è tornata la memoria di quel disastro".
Ospiti della rassegna targata L'AltraMontagna organizzata con Il Dolomiti, Ci sarà un bel clima, Alto Rilievo-voci di montagna e Protect our winters sono stati Mazzucco, Cristina Da Rold e Irma Visalli in un dialogo con Michele Argenta con Pietro Lacasella, Sofia Farina e Daniele Loss.
Un evento iniziato con la toccante, commossa e coinvolgente testimonianza di Mazzucco, tra gli ultimi superstiti quella drammatica notte del 9 ottobre del 1963. All'epoca aveva 15 anni e frequentava la scuola a Longarone. A mezzogiorno era uscito dall'istituto per prendere la corriera, passando davanti anche alla caserma dei carabinieri.
"C'erano diverse persone che chiedevano se ci fosse qualche allarme per la diga, ma i due carabinieri hanno risposto che era tutto tranquillo e che non c'erano segnalazioni. Anche loro vivevano lì e potevano tornare a casa tranquilli. Sono state le ultime parole che ho sentito a Longarone".
Poi tutto è stato spazzato via. "Era una giornata di sole e sembrava estate. Dopo cena i compiti e poi un'oretta al bar con gli amici. C'era anche un ragazzo di 25 anni che lavorava nel cantiere della diga e aveva un posto letto nel dormitorio. Il prete gli aveva chiesto di fare quattro chiacchiere in canonica ma aveva preferito andare a lavorare: quella notte è morto e il corpo non è mai stato ritrovato".
Il tempo di tornare a casa e addormentarsi e Mazzucco è stato svegliato dal rumore della frana. "Nulla di nuovo perché ormai si sentivano spesso, ma quella sera in pochi secondi ha cominciato a aumentare d'intensità in modo spaventoso e difficile da descrivere. Poi il tremore: l'impressione è che le montagne si stessero sgretolando e accartocciando. L'unico gesto di difesa è stato quello di rannicchiarmi nel letto". Ma la mamma lo scosse per scappare: "Prendo in braccio mia sorella di 9 anni mentre lei si occupa dell'altra sorella di 6 mesi. Al buio usciamo di casa perché ormai era saltato tutto".
Appena sono sulle scale, "sentiamo l'acqua addosso e resto incredulo: si parlava di una possibile onda di 25/30 metri e non di 400 metri come poi è stato. Per terra c'è una spanna di fango e le finestre erano sfondate".
E mentre si dirigono dai parenti nelle abitazioni posizionate più in alto capiscono che l'acqua era quella del lago. "Tutto è in subbuglio, molte persone avevano parenti nella parte bassa del paese. C'è preoccupazione per la sorte dei familiari, ma anche una gioia incontenibile per essere sopravvissuti a quella che sembra un'apocalisse. I volti contrastati da questa strana eccitazione".
La notte passa. "Alle prime luci dell'alba abbiamo guardato verso il lago e c'era una coltre di nebbia che nascondeva tutto. Esce il sole e ci spostiamo sul costone della valle del Piave: detriti e macerie. Sono riuscito a guardare solo qualche secondo. Non riuscivo a sopportare quella vista. Poi siamo tornati in paese e non c'era più la vegetazione. Intanto sono arrivati i carabinieri e ci hanno detto di andare via. Abbiamo preso quattro stracci e siamo stati portati via in elicottero".
La memoria collettiva delle grandi tragedie e dei grandi eventi è difficile da gestire e da preservare, specialmente per i territori e per le popolazioni.
"Il caso Vajont è stato il primo esempio di solidarietà", dice la giornalista Cristina Da Rold. "Ma dobbiamo capire come portare avanti la memoria. Non è solo raccontare ma anche capire come fare a lunghissimo termine: ci si dimentica e ci si disaffeziona. La storia c'è e oggi è chiara: la sfida è capire cosa lasciare".
Serve, però, qualcosa in più in generale per la vice presidente dell'associazione Tina Merlin e esperta di urbanistica e governance del paesaggio.
"Non bastano gli esempi di Tina Merlin e del giudice Fabbri: serve la popolazione", evidenzia Irma Visalli. "La partecipazione pubblica deve essere attiva perché non riguarda solo l'opera, ma la gente e il territorio, quindi tutti noi. E' necessario questo salto di qualità e di consapevolezza, ma dobbiamo ancora farlo. E un caso potrebbe essere l'ipotetica diga del Vanoi".
Le Dolomiti hanno due riconoscimenti. "Sono un patrimonio Unesco e c'è un evento tra i peggiori della storia", spiega Visalli. "Il punto di unione è la responsabilità che unisce queste caratteristiche. Si devono mantenere i valori e il paesaggio, che si reggono con le comunità che vivono, lavorano e gestiscono il territorio. Ma se non si riesce a gestire l'unicità e le risorse naturali di un territorio fragile, ecco che succede il Vajont. Sono le due facce di una stessa medaglia".
A sessant’anni dal Vajont bisogna capire come mantenere viva la memoria nonostante il passare del tempo e lo sviluppo di nuove forme di comunicazione e di interpretazione storica.
"Oggi ci sono storie di persone che perdono tutto, non siamo esenti dai traumi: c'è chi attraversa il Mediterraneo, ci sono le guerre", continua Da Rold. "La Shoah è stato un altro momento di memoria collettiva, il Vajont deve guardare più a questo modello".
Dal lago Bianco alla pista da bob (di cui L'AltraMontagna ha di recente pubblicato un dettagliato approfondimento - per chi fosse interessato a leggerlo: QUI), come stimolare la politica e la partecipazione attiva della popolazione?
"Bisogna impegnarsi e fare qualcosa per cambiare il nostro modo di guardare alla politica. Parlare perché la raccolta differenziata è politica, la Ztl è politica, la pista da bob è politica. Ci riguarda tutto perché significa qualità della vita. Bisogna disegnare il futuro", conclude Visalli.