"Siamo di fronte a un tentativo di svolta autoritaria negli Usa. La sua politica estera? Un nazionalismo imperialista". Trump, l'analisi di Del Pero a il Dolomiti
Le radici del trumpismo, le prospettive future e i progetti della (nuova) presidenza Trump: l'analisi di Mario Del Pero, storico, docente di Sciences Po a Parigi e tra i massimi esperti di politica estera Usa. "Oggi gli Stati Uniti vivono una torsione unilateralista molto, molto radicale. Era da Theodore Roosevelt, dal 1909 in poi, che un certo linguaggio, con i riferimenti al manifest destiny e all'espansione territoriale che abbiamo visto nel discorso inaugurale di Trump, non si sentiva più"
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PARIGI. Dall'annunciata guerra commerciale agli attacchi ai tradizionali partner europei, dall'uscita dall'Organizzazione mondiale della Sanità al cambio di posizione in Ucraina e all'avvicinamento alla Russia. E la lista, nei primi (pochissimi) mesi della nuova amministrazione Trump, potrebbe continuare. Quel che è certo è che a livello geopolitico la seconda presidenza del tycoon si conferma in netta controtendenza rispetto a moltissimi dei temi (e degli impegni) tradizionalmente centrali nel discorso di politica estera statunitense: ma quali sono le radici di questo cambiamento? E quali le prospettive? Il Dolomiti lo ha chiesto allo storico Mario Del Pero, docente a Sciences Po a Parigi e tra i massimi esperti di politica estera Usa.
Nel suo lavoro “Libertà e impero: gli Stati Uniti e il mondo” mette in evidenza uno dei concetti chiave nell'ascesa degli Stati Uniti a potenza egemone globale: la creazione e lo sfruttamento di una rete di interdipendenze a livello internazionale. Donald Trump promuove, almeno apparentemente, una logica isolazionista che raramente è stata prevalente nel discorso di politica estera americana: si tratta di una 'parentesi' destinata a esaurirsi o siamo di fronte, almeno per quanto riguarda il partito Repubblicano, a un nuovo paradigma?
Da storico non credo che la categoria dell'isolazionismo sia mai stata utile per leggere e capire l'azione internazionale degli Stati Uniti e non credo lo sia oggi. Gli Stati Uniti sono dentro un reticolo globale di interdipendenze, ne sono centrali, ne sono condizionati e lo condizionano: pensiamo al ruolo del dollaro, alla potenza militare e alle basi americane nel mondo. Siamo davanti piuttosto a una svolta radicalmente unilateralista. Unilateralismo significa agire al di là e al di sopra del diritto internazionale, fuori dalle organizzazioni internazionali, senza consultarsi. È una politica estera scopertamente nazionalista: si fa tutto ciò al servizio di un interesse nazionale, declinato molto in termini di crescita relativa di potenza. La torsione nuova, che 8 anni fa non c'era, è che si tratta di un nazionalismo molto imperialista, nel quale vige una logica da 'legge della giungla'. Si intende il sistema internazionale come anarchico, intrinsecamente competitivo, antagonistico e conflittuale, nel quale si massimizzano i propri interessi a discapito di quelli degli altri e, soprattutto, si ragiona in termini di capacità di potenza altrui. Così ci si relaziona agli attori che possono essere 'degni' di essere considerati potenze. Nel caso specifico poi dei rapporti con la Russia e di quel che sta avvenendo rispetto all'Ucraina, le dimensioni centrali sono due: quella anti-cinese e quella anti-europea. Partendo dalla prima, possiamo dire che questa è un'amministrazione, a partire dalla sua squadra di politica estera e di sicurezza, che ritiene la Cina il vero rivale di potenza degli Stati Uniti e quindi declina le scelte di politica estera secondo questa logica, cercando di riallacciare un rapporto stretto con la Russia anche per sottrarla all'abbraccio di Pechino, per evitare di destinare risorse e impegno al contenimento della Russia stessa e al sostegno dell'Ucraina. Sul fronte europeo invece, gli alleati del Vecchio continente sono considerati più che altro dei rivali: per i loro surplus commerciali, perché l'Unione europea prova a promuovere politiche di regolamentazione del big tech americano che non piacciono a questa amministrazione e per tante altre ragioni. Si tratta di un nuovo paradigma? Per certi aspetti sì, magari di un paradigma che si affida a dei precedenti: una torsione unilateralista e imperialista gli Stati Uniti l'hanno vissuta in passato. Certo è che questa torsione, oggi, si declina in modo molto, molto radicale. Ed è una declinazione forse nuova: era da Theodore Roosevelt, dal 1909 in poi, che un certo linguaggio, con i riferimenti al manifest destiny e all'espansione territoriale che abbiamo visto nel discorso inaugurale di Trump, non si sentiva più.
Negli ultimi anni si è parlato a più riprese della strategia del “Pivot to Asia” e della necessità di dare priorità strategica al teatro Asia-Pacifico per gli Stati Uniti, eppure nei primi mesi della nuova presidenza Trump le attenzioni (e gli attacchi) del presidente e del suo entourage sembrano essere rivolti più agli storici partner: dal Canada al Messico, minacciati di tariffe superiori a quelle imposte alla Cina, fino all'Europa e in particolare all'Ucraina. Come mai il nuovo presidente sta prendendo di mira i tradizionali partner Usa?
È vero che la rivale di potenza è la Cina e che quindi molto viene piegato a questa logica, rimangono però forme di integrazione e interdipendenze e quindi mutua dipendenza molto profonde con gli alleati europei, con il Messico e con il Canada. A volte lo dimentichiamo, presi dalle dinamiche dalla relazione con la Cina e le direttrici trans-pacifiche, ma sullo spazio Nord-Atlantico abbiamo oggi ancora, e per distacco, i livelli di integrazione securitaria (con la Nato), economica, commerciale e finanziaria più elevati. In termini di investimenti diretti esteri in entrata e in uscita tra Stati Uniti e Europa abbiamo dei volumi che sono 3-4 volte superiori a quelli che ci sono sulle rotte trans-pacifiche. Io credo che, per come ragiona Trump, e utilizzando quindi come uno dei parametri fondamentali per misurare chi vince e chi perde sulla scena internazionale i deficit commerciali, è chiaro che Messico, Canada ed Europa risultino degli avversari. Anche perché, nel tentativo di ripensare le supply chain e le catene di valore trans-nazionali e di disaccoppiare l'economia statunitense da quella cinese, è cresciuto di molti il deficit con altri Paesi dove si è trasferita parte della produzione. È esploso il deficit con il Vietnam che è cresciuto di tre volte in pochi anni ed è più che raddoppiato quello con il Messico per esempio. Una certa iniziativa, sia della prima presidenza Trump che di Biden, finalizzata a disaccoppiare l'economia americana e quella cinese ha acuito la dipendenza statunitense da produzioni e importazioni in altri Paesi oltre la Cina. E questo ovviamente è un problema. Se poi ragioniamo sulla volontà di questa amministrazione di declinare la propria politica estera soprattutto in funzione di contenimento della Cina, capiamo anche che gli Stati Uniti usano lo strumento delle tariffe, la logica punitiva e sanzionatoria di questi strumenti economici anche per fare pressione sui partner, soprattutto quelli europei, affinché facciano di più essi stessi in questo impegno di disaccoppiamento delle loro economie da quella cinese. Per farla breve: si minacciano tariffe contro la Germania, per esempio, per ridurre certo il deficit, ma anche per fare pressione affinché la Germania stessa contribuisca maggiormente a questo disaccoppiamento delle economie occidentali dalla Cina, perché si ritiene che dentro queste supply chain trans-nazionali in cui tanti stadi iniziali e intermedi sono in Cina, Pechino abbia una leva di influenza e un potere di condizionalità da eliminare.
Dove si possono rintracciare storicamente le radici del trumpismo?
Le matrici storiche del trumpismo stanno dentro ad alcuni elementi che hanno contraddistinto la storia degli Stati Uniti. La visione molto essenzialista e normativa di quel che l'America è e deve essere: un Paese tendenzialmente 'bianco', chiuso all'immigrazione, orgogliosamente sovrano (per usare un termine abusato ma che va di moda, il sovranismo è un tratto distintivo anche dell'amministrazione Trump) e il ritorno di un aggressivo imperialismo (di cui visibili sono anche matrici razziste o eurofobiche: un certo discorso anti-europeo è molto presente nella retorica repubblicana e di Trump). Sono questi gli elementi che si ritrovano. Elementi, come detto, divenuti progressivamente marginali dall'inizio del '900 o incarnati da figure politiche che non hanno mai raggiunto ruoli apicali e che invece oggi sono tornati con forza. Da storico contemporaneista leggo molto tutto ciò come conseguenza anche della crisi del 2008 e di quello che ha rivelato: ha delegittimato la globalizzazione, ne ha evidenziato alcuni lati oscuri. Intendiamoci però, la globalizzazione non ha devastato gli Stati Uniti come dice Trump: alcune città, alcune regioni, alcune attività economiche, servizi avanzati e nuove tecnologie ne hanno molto beneficiato, ma altri pezzi d'America ne sono stati colpiti con un processo di de-industrializzazione. La crisi del 2008 ha però delegittimato l'ideologia e il discorso della globalizzazione: il cosmopolitismo, l'internazionalismo. Ha riacceso richieste di protezione nazionale, un nazionalismo sovranista molto marcato. La chiave per capire Trump e il trumpismo credo stia in buona parte in questo passaggio storico. L'interdipendenza vuol dire dipendenza, mutua dipendenza. Ma vuol dire dipendenza da un altro, un altro straniero e nella fattispecie un altro, straniero come la Cina che oggi è considerato nemico. E dipendere da un 'altro', 'straniero' e 'nemico' spaventa e si possono cavalcare così quelle paure, che si possono declinare in termini di xenofobia o razzismo, cosa che Trump ha fatto e fa costantemente.
Dopo le elezioni del 2020 Trump ha violato la regola principale del sistema democratico tentando di ribaltare i risultati delle presidenziali, nel 2024 il tycoon ha condotto una campagna elettorale dai toni forti, promettendo di perseguire i suoi rivali e punire i media critici. Grazie a una straordinaria decisione della Corte Suprema godrà di un'ampia immunità durante il suo secondo mandato. Siamo di fronte a una svolta verso un autoritarismo americano?
Credo siamo di fronte a un tentativo di svolta autoritaria, a un progetto autoritario fondato sulla volontà di stravolgere gli equilibri tra i poteri a vantaggio del potere esecutivo, finalizzato a centralizzare funzioni e poteri che in termini costituzionali la presidenza non avrebbe. Finalizzato a far saltare tutta una serie di diaframmi e contrappesi istituzionali. Gli ordini esecutivi lo segnalano. Pensiamo al decreto presidenziale con cui si pensa di poter cancellare un pezzo fondamentale della Costituzione, il 14esimo emendamento, il diritto di cittadinanza per nascita sul territorio, quello che noi chiamiamo Ius soli. Si tratta di una misura radicale ed estrema, anche perché la procedura di revisione costituzionale è complessa e richiede ovviamente ampie maggioranze. Senza contare che parliamo di un emendamento particolarmente importante e significativo: è la premessa che ha permesso alla democrazia statunitense di diventare gradualmente una democrazia multirazziale, la valenza pratica e simbolica di questa decisione è pesantissima. Le Corti sono già intervenute, anche i giudici non nominati da Repubblicani hanno bloccato molti di questi ordini presidenziali per la loro patente incostituzionalità o illegalità. Il punto è capire quanto le Corti riusciranno a reggere l'urto. L'Amministrazione cerca lo scontro, anche con l'auspicio di portare poi la disputa fino alla Corte Suprema (dove c'è una maggioranza conservatrice, anche se è meno netta di quanto a volte non si dica). C'è quindi un disegno autoritario e ora siamo già a un tornante: se Trump, come prospetta, comincerà a non rispettare le ingiunzioni delle Corti, godendo anche dell'immunità ricordata, allora si aprirà una crisi costituzionale a tutti gli effetti. Colpisce anche, ma è deliberato, che un Congresso a maggioranza repubblicana con un partito Repubblicano ormai pienamente trumpizzato non sia stato neanche coinvolto in molti di questi provvedimenti. Anche qui il messaggio è molto forte: per quanto Trump controlli il Congresso, il presidente agisce da solo per ribadire la centralità e il primato assoluto e indiscusso, senza limiti, controlli e contrappesi dell'esecutivo.
Tornando al tema delle interdipendenze, il sistema internazionale sorto dopo la Seconda guerra mondiale, che trova le sue fondamenta anche (e forse soprattutto), nei pensieri e nelle intuizioni di grandi presidenti americani come Woodrow Wilson e Franklin Delano Roosevelt, è stato edificato per cercare di garantire la 'via' del diritto nella risoluzione delle questioni internazionali. L'approccio di Trump sembra essere l'opposto: unilaterale, talvolta sprezzante se non violento nei toni, quasi a richiamare una sorta di mito del cowboy in un mondo che si fa frontiera. Il sistema internazionale che si immagina Trump è un Far West senza regole, con lui sceriffo che le detta per tutti?
Il mito della frontiera è stato anch'esso evocato e rianimato da Trump nel suo discorso inaugurale. La frontiera ha una funzione molto particolare nella mitologia americana: è lo spazio mitico dove la democrazia americana si forma e si rigenera costantemente, dove l'energia e la vitalità di questa democrazia, sfidata, rinasce in continuazione. È chiaro che qui parliamo di una cruda e brutale politica di potenza, su una scena internazionale dove non ci sono regole se non quella del più forte. Qui però le responsabilità americane pre-datano Trump: da almeno 30 anni, in modo molto marcato durante gli anni di Bush Jr., gli Stati Uniti hanno affermato, espresso, giustificato, teorizzato e internalizzato doppi standard rispetto alle organizzazioni internazionali e al diritto internazionale. Violandolo sistematicamente: pensiamo alla notte della ragione che segue l'11 settembre, a Guantanamo, alla sospensione delle Convenzioni di Ginevra e capiamo che una certa logica si trova già lì. Una dolosa delegittimazione di alcuni dei pilastri di un sistema incompleto, insufficiente, parziale certo, ma che esisteva nella governance globale. Trump spinge tutto ciò all'estremo, caricaturizza quasi questa logica, la ostenta, la esplicita. C'è poi da dire che l'internazionalismo e il diritto internazionale a una certa destra repubblicana non sono mai piaciuti, neanche negli anni '50: il primato indiscusso del diritto nazionale su quello internazionale è stato ribadito più volte anche in alcune importanti sentenze delle Corti. Però con Trump tutto ciò viene spinto all'estremo, intrecciandosi con le altre dimensioni su cui ci siamo soffermati.