L’uomo che ascolta morire i ghiacciai
Ragazzo del 57, giornalista dal 79, troppo piccolo per il 68, ha scansato il 77 ma non la direzione dell’Adige (8 anni 8 mesi e 3 giorni) e la politica (24 mesi in consiglio provinciale tra il 2018 e il 2020)
Se qualcuno sussurrava ai cavalli, lui ascolta i sussurri (e gli schianti) del ghiaccio. Anzi, se si vuole essere tristemente realistici, Sergio Maggioni è l’uomo che ascolta morire i ghiacciai. Che registra i sussurri e le grida della loro agonia. Lunga ma inarrestabile, salvo colpi di genio del genere umano, che fin qui non ha evitato il surriscaldamento del pianeta.
Partito come artista visuale e performer, dopo il liceo artistico a Lovere, ha vissuto a Milano nell’ambiente degli artisti visuali ma poi ha lasciato la metropoli e le arti che si vivono con gli occhi, per tornare a casa sua, in montagna in val Camonica, e ascoltare i rumori del mondo. Anche di quello altissimo e fragilissimo e ormai moribondo dei ghiacciai.
Nato a Breno il 23 settembre 1981, dunque quarantunenne figlio della Val Camonica, Sergio Maggioni ha scelto un nome d’arte misterioso e naturalmente camuno: un’iscrizione dell’età del ferro, 1500 anni avanti Cristo, dal suono onomatopeico e vagamente germanofono: Neunau (si legge com’è scritto). Che siano suoni da una forgia del ferro ancora in funzione o da luoghi della natura, Maggioni-Neunau insegue le tracce sonore di un mondo in bilico tra il “come è sempre stato” e “come mai più sarà”. La sua discografia, in pochi anni di attività, è già fitta: da “Neunau” (2016) attraverso “ Passi”, “Concrete”, “Nel cemento”, “Quadraphonic Transmission – Live in S.Vittore and the Forty Martyrs”, “Il ciclo del vuoto”, “Riparati sotto una roccia prima della tempesta Vaia”, “Organi di fondo”, “Il lago sospeso”, fino a “Rimodulazione di flauti Paetzold durante una sessione di libera improvvisazione di Antonino Politano”.
Venerdì 11 agosto sarà a Campiglio per il ciclo di incontri, sempre suggestivo, di “Mistero dei Monti” – questa ventunesima edizione si intitola “Epifanie alpine” – alle 17.30 alla Sala della Cultura a dialogare su “L’ultimo canto del ghiacciaio” con Roberto Ranzi, Università di Brescia e Cristian Ferrari, glaciologo della Sat. Il piccolo festival è promosso da Madonna di Campiglio Azienda per il Turismo spa, Comune di Pinzolo, Comune di Tre Ville, ideato e curato da Roberta Bonazza e Giacomo Bonazza, con il sostegno di Montura.
Sergio Maggioni, Neunau fin dal suo stesso nome evoca un viaggio in altre dimensioni: è così?
“La parola è un incrocio, pare, fra l’etrusco e le parlate locali della Val Camonica, è stata scritta circa 1500 anni avanti Cristo nella zona di Loa. Ha il suono giusto per aprire nuove porte”.
Qual è il suo percorso musicale?
“Non ho fatto il Conservatorio, sono autodidatta anche nel campo della musica elettronica, da ragazzino suonavo la chitarra elettrica e come interesse di ascolto sono passato dal rock alla musica del Novecento…”
John Cage e i minimalisti, immagino…
“Certo ma anche Berio, Maderna, la musica concreta, i francesi… Così progressivamente sono andato in ricerca della relazione tra uomo e natura, luoghi e suoni, suoni e racconti. Ho recuperato le mie esperienze di arte visuale in una combinazione tra musica, installazione, performance”.
L’esplorazione acustica del ghiacciaio dell’Adamello ha a che fare con le sue radici camune?
“Be’, diciamo che dopo una quindicina d’anni a Milano e un anno a Berlino mi è venuta voglia di tornare nella mia valle a riscoprire luoghi meno antropizzati e dal 2015 sono tornato 'a casa'. Il ghiacciaio è diventato un progetto nel 2020. C’era la pandemia e mi sono domandato quali suoni potesse avere un ghiacciaio nella sua forma più intima e inaccessibile, al di là dell’immaginazione. L’idea era di fare una registrazione continua di ciò che avviene dentro i crepacci, in aria, a contatto con il ghiaccio. Ho avuto l’idea di registrarne la voce, 24 ore su 24, per mesi interi, allo scopo di documentare gli effetti dei cambiamenti climatici e di capire che cosa significa, nella dimensione del suono, lo scioglimento del ghiaccio. Per questo ho intrecciato un dialogo con gli esperti delle università di Brescia, di Pavia, poi anche di Pisa. Diciamo che l’artista è entrato in una squadra di scienziati portando le sue curiosità, per una finalità che è la documentazione, non la spettacolarizzazione del fenomeno”.
Quale conoscenza aggiunge l’approccio acustico a quello visivo e alle misurazioni dell’estensione della superficie ghiacciata?
“Il mondo sonoro non fotografa il momento, l’istante, come fa un’immagine fissa, ma l’evoluzione del ghiacciaio che è un organismo vivo, che si muove, cambia, fa rumore”.
Il ghiacciaio dell’Adamello, che negli anni Duemila aveva un volume di 800 milioni di metri cubi, scomparirà entro il 2080 o 2090, secondo il glaciologo Roberto Ranzi. Quindi state documentando l’orlo di una catastrofe. Ci vogliono strumenti particolarmente sofisticati per catturare la voce del ghiacciaio?
“Gianni Pavan dell’Università di Pavia, purtroppo scomparso nel maggio di quest’anno per un incidente, ha messo a punto dei registratori bioacustici adatti all’ambiente del ghiacciaio, apparecchi già usati in ambito faunistico per catturare i suoni degli animali e in fondo il ghiacciaio è un grande essere vivente. Noi documentiamo la geofonia, la voce della terra: a questo servono le 10mila ore di registrazioni audio, sempre accompagnate dal rilevamento della temperatura. Un progetto così non aveva precedenti e sono contento che un’intuizione artistica sia utile alla scienza. Il senso dell’udito è al servizio della comprensione di un fenomeno che sta cambiando il volto e il futuro delle nostre valli”.
Il compianto Gianni Pavan spiegava che “alcuni possenti suoni sono riconducibili a fratturazioni e crolli, molti altri, anche sottili e poco percepibili, sono difficilmente interpretabili quando presi singolarmente o saltuariamente ma queste voci diventano intellegibili e decifrabili se registrate da appositi sensori e ascoltate su lunghi periodi”. Lei, Maggioni, diventa così un testimone e un narratore della fine di un’epoca. Con quali emozioni personali e artistiche?
“La fusione del ghiaccio è il vero testimone di ciò che sta accadendo. Io raccolgo questi suoni con l’emozione di ascoltare un mondo in estinzione. Poi nascono delle istallazioni, come quella che ho fatto per Brescia capitale della cultura, o a Linz in Austria, dove grazie alla realtà aumentata e all’ascolto immersivo si può restituire in qualche misura la consapevolezza che i ghiacciai, che noi siamo abituati a vedere unicamente in forma di paesaggio, sono corpi vivi e dinamici, organismi viventi che si prestano a progetti divulgativi, per far crescere la coscienza del cambiamento climatico che ci sta cambiando”.
È un po’ come registrare la voce degli ultimi dinosauri?
“Be’, diciamo che lo scioglimento del ghiacciaio ci pone in modo forte la questione della sopravvivenza dell’ambiente nelle nostre aree alpine. E questa emorragia di ghiacci che ogni estate, in queste estati sempre più calde, peggiora, ha un suono molto potente. E ci mette di fronte, acusticamente, al contrasto tra rumore, suono e silenzio, che racconta molte cose. Per questo al centro della mia installazione appare una struttura totemica come spazio 'sacro-sonoro' rappresentato da un blocco di ghiaccio di trenta chili con all’interno una roccia, sospeso nel vuoto. Il ghiaccio, fondendo, sgocciola su un piatto posto in terra generando un suono cadenzato, amplificato da un diffusore. È un conto alla rovescia del suono in estinzione dei ghiacciai”.