Lo spiazzante Sconcerto di Simonetta Bungaro: due donne aggrappate a un pianoforte, in un mare di foglie
Ragazzo del 57, giornalista dal 79, troppo piccolo per il 68, ha scansato il 77 ma non la direzione dell’Adige (8 anni 8 mesi e 3 giorni) e la politica (24 mesi in consiglio provinciale tra il 2018 e il 2020)
Sconcertata e sconcertante, sussultante e scandagliante, sul palco del teatro di Pergine (una sera di venerdì, il 16 settembre, di autunno approssimante) Simonetta si muove, agitata e compresa, come se fosse sola nella sua stanza, mormorando, esplorando, toccando e colpendo il suo pianoforte a coda e gli oggetti che punteggiano la scena tutto intorno: luci, valigie, sedie, foglie e rami. Una confessione, appare: un disvelamento, denudarsi dell’anima, sincero e sofferto. Un’urgenza.
Simonetta Bungaro è una musicista, una pianista e una docente, già direttrice del Conservatorio Bonporti, che ha sentito il bisogno, anzi la necessità, di raccontarsi come essere umano, in un atto artistico che andasse oltre i limiti di uno spartito appoggiato sul leggio. Assecondata con sapienza drammaturgica dalla regista Carmen Giordano, spalleggiata sul palco dalla figlia Giulia Pardi (musicista e artista pure lei), l’autunno scorso ha proposto il suo “Sconcerto” a piccoli gruppi di pubblico amico, in casa sua al Pian del Gacc, con le vetrate che davano sugli alberi cechoviani tutto intorno, in mezzo a un bosco che sarebbe piaciuto a Cappuccetto Rosso.
E venerdì sera l’ha proposto, il suo “Sconcerto”, per la prima volta in forma teatrale, cambiato e asciugato, meno parole e più oscurità, in uno spazio chiuso e claustrofobico, senza più il bosco a fare da cornice al dolore, dentro il buio di un palcoscenico, con il pubblico seduto tutto intorno alla scena, a semicerchio, vicino e partecipe di ogni respiro, di ogni gesto. Ma tutti – attori e spettatori – un po’ prigionieri: più acqua carsica dentro di noi, meno aria intorno, da respirare per affrontare la confessione del dolore di una donna che, valicato il mezzogiorno della vita, esplora coraggiosamente il proprio destino dentro il chiaroscuro cangiante del pomeriggio, non ignaro del crepuscolo.
“Come in un flusso di coscienza, parole, gesti e musica scaturiscono dall’incontro con oggetti, luci e ombre della Stanza e ricompongono davanti ai nostri occhi i frammenti di un vissuto che si fa atto artistico”: così nel programma di sala di “Sconcerto in una stanza (Performance per donna e pianoforte)”, questo il titolo completo dello spettacolo pensato da una donna che l’ha realizzato con altre due donne, tre generazioni tre sguardi. Certo, un flusso, un vissuto che viene agito e agitato, questo “Sconcerto”. Ma anche una sfida, di sconcertante (per l’appunto) sincerità.
Simonetta fa ondeggiare il concerto fuori dalla zona confort della musica, che s-concerta ma anche rassicura: s-conforto, dunque, s-piazzamento, s-mobilitazione. Straniamento e straripamento. Ecco, l’acqua. Un’alluvione interiore, proprio nei giorni di altre tragiche esondazioni italiane. Evocata da un bicchiere bevuto con sforzi e apnee, da un secchiello per le abluzioni e soprattutto dagli occhialetti da piscina e dalla “nuotata” annaspante della protagonista, l’acqua è una presenza-assenza che riempie gli interstizi del palco. Simonetta si salva dall’incubo delle vasche clorate e obbligate, “tuffandosi” nel pianoforte come poi Giulia si tufferà nelle foglie sparse a terra, verdi e secche, morbide o crepitanti che siano.
Acqua e dunque: apnea ansia aritmia angoscia attesa assenza. Anima. E poi il pianoforte, percosso nelle viscere delle sue corde (cor-cordis, operazione a cuore aperto e pulsante) con manate, pizzicotti, colpi di dita, il lancio di una mela che poi la pianista addenta, ansiosamente: non ci sono oasi, nello “Sconcerto”, non c’è l’estasi indiana di un Claudio Rocchi che pure ci ritorna in mente, incongruamente (“Quando stai mangiando una mela/ Tu e la mela siete parti di Dio/ Quando pensi a Dio sei una parte/ Di ogni parte e niente è fuori da tutto”). Qui, in “Sconcerto” di Bungaro, la presenza dell’Eternamente Assente, che molti chiamano Dio, oscilla tra una dieta macrobiotica rievocata contro un brutto male che uccide e le note estratte dai tasti, bianchi e neri come la vita. La voce di Simonetta la evoca due volte, la parola breve come un soffio, e così somigliante a quel che siamo noi: dio, io…
Vibrazioni, dallo “Sconcerto”: ma non le good vibrations dell’ottimismo americano, qui siamo dentro l’anima sanguinante, con i suoi timori e tremori, discrepanze e dissonanze. Tutto nasce da una consunta valigia riaperta, con una vecchia fotografia che sconcerta e scatena memorie, e poi vecchi vestiti re-indossati e sconcertanti, giallo lillà blu (“ma che razza di colori ti mettevi, mamma?!?”), e poi il dolore: un’assenza precoce, un amore perduto, il buco nero di una lontananza non rimarginabile. E meno male che alla donna sola e desolata, sconcertata e sconcertante, che ha lottato con il suo pianoforte e sembra sconfitta, viene in soccorso la donna figlia, l’ospite Giulia, figlia vera e figlia sul palco. E allora è come se, nel piccolo mare di quell’acqua evocata, il pianoforte, richiuso da Giulia il coperchio, luccicante la sua nerità, diventasse barca che galleggia e salva.
Pianoforte nero sarcofago eppure barca, e arca di salvezza. Mentre la donna madre suona il suo Chopin, riconciliata con la vita e con la musica, la donna figlia sul piano si arrampica, si aggrappa, si attorciglia e si abbandona. Lo sconcerto è ritornato armonia concertante? Con l’acqua, ancora, le due donne si lavano la faccia, i capelli, gli occhi, i vestiti, prima di avere il coraggio di guardarsi, prima la figlia e poi madre e figlia insieme, dentro lo specchio. E così, alla fine di questo bell’esordio di Bungaro autrice attrice, ti pare che quel respiro affannoso della pianista, quell’annaspare tra il ricordo di chi non vive più tra di noi e le vite di chi c’è ancora (e non ci lascia soli), quell’affanno si sciolga nella possibilità che la relazione prevalga sulla disperazione, l’incontro e il ricentrarsi sullo s-concerto.
Le sedie vuote del teatro, che appaiono nel finale a sipario alzato (ma noi spettatori siamo al di qua, sul palco, e dunque condividiamo lo sguardo delle attrici), oltre le due donne, oltre Simonetta che smette di suonare e Giulia che smette di sognare, sono dunque – ci pare di poter dire – le dieci cento mille assenze che rendono la vita di ciascuno, giorno dopo giorno, più vuota e più povera (viene in mente il poeta cantante Brassens, nel suo capolavoro Les copains d’abord: quei buchi nel mare, dei compagni morti, non si richiudono mai). Ma, a ben guardare, quella platea di teatro è anche la possibilità che qualche sedia torni ad essere occupata, che qualcuno riappaia, che nuovi incontri ci possano sconcertare o confortare, rendendoci più sopportabile la navigazione nel gran mare delle assenze. Perché a suonare, a scrivere, a sperare, comunque si continua, come è giusto che sia, sempre navigando e navigando, sulla zattera improbabile eppure salvifica di un pianoforte nero, con un cuore di corde lucenti e vibranti.