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L’ Arcangelo Gabriel nella fatal Verona, 50 anni dopo

DAL BLOG
Di Paolo Ghezzi - 22 maggio 2023

Ragazzo del 57, giornalista dal 79, troppo piccolo per il 68, ha scansato il 77 ma non la direzione dell’Adige (8 anni 8 mesi e 3 giorni) e la politica (24 mesi in consiglio provinciale tra il 2018 e il 2020)

Peter, rocciosa e angolare pietra viva rock come il Pietro che “su questa pietra fonderò la mia chiesa”. Nello Shabbat ormai tramontato, sotto un cielo non ancora buio, l’arcangelo Gabriel ci è apparso nerovestito e calvo, perduti i lunghi capelli. Ma la sua voce era ancora calda e capace di squilli, nonostante le sue 73 primavere. Altro che Bruce, assicura quello che era reduce dallo Springsteen ferrarese, di alluvioni ignaro.

 

Sabato sera dunque, sotto una pioggerellina che non era Red Rain e che poi ha smesso gentilmente di inumidirci verso la fine del primo set, sulle gradinate dell’Arena (prima delle due date italiane del tour), l’arcangelo Gabriel è dunque apparso, ha parlato (anche in italiano: “potrebbi essere…), ha spiegato il senso del cosmo e ha esplorato con il suo Panocticom l’intelligenza artificiale, ha introdotto il suo fido bassista Tony Levin, “antico quasi come quest’Arena”, ha duettato “Non mollare” (Don’t Give Up) con una altissima violoncellista nera (Ayanna Witter-Johnson) nella voce che fu di Kate Bush (ma senza abbracciare Ayanna come abbracciava Kate), ha cantato una canzone nuova molto dolce per la sua mamma e un’altra per il suo papà ingegnere e inventore, ha fatto saltare e urlare i suoi fedeli sul bum bum bum del cuore di Solsbury Hill, quando qualcosa gli ha luccicato in mano ho pensato che fosse il suo antico flauto traverso e invece era una bacchetta magica con cui ha pennellato fiotti rossi sul grande schermo alle spalle del palco, e infine è riuscito – nella Verona tommasiana che resiste in Zaialand – a far cantare alla folla estatica il bis di Biko (Stephen, attivista sudafricano dei diritti civili ucciso a 31 anni nel 1977) con qualche centinaio di pugni chiusi nel cielo della sera arenaria.

 

Scendendo verso Verona con Arrigo, Lorella e Claudio – i miei Gabriel companions – mi era venuta in mente, ovviamente, la fatal Verona di 50 anni fa, con Vittorino e Maria Elena al Bentegodi: stadio che fece godere solo i concorrenti juventini e si trasformò in monumento funebre dello sperato scudetto rossonero, dopo l’incredibile 5-3 dell’Hellas Verona sul nostro Milan (non mi ero ancora demilanizzato perché non era ancora arrivato il Cavaliere a cui vent’anni dopo mandai caustica lettera di dimissioni da tifoso dopo il caso Lentini). Il Verona aveva le maglie gialle come il Brasile, quel pomeriggio, e come il Brasile giostrava e giocava contro un Diavolo rintronato…

 

Ma non mi ero reso conto che la data coincideva proprio: 20 maggio 1973 – 20 maggio 2023! Cosicché, Pietro ha inconsapevolmente, ai miei occhi, riscattato Gianni, il Gabriel 23 ha redento il Rivera 73. E magari, mezzo secolo fa, non c’era neppure tutta quella felicità nostalgica che assegniamo volentieri ai tempi andati… l’adolescenza, anche allora, era malattia complicata…Nostalgico non è il grande Peter che – a costo di intristire noi prog-genesisiani di stretta osservanza – non rifà mai i mitici Genesis a differenza degli altri nostri quattro eroi (Mike, Phil, Tony e Steve: soprattutto quest’ultimo, Hackett, grande raffinato rivisitatore del repertorio). Niente da fare, Pietro non ripete. Pietro non guarda indietro.

 

Con Arrigo, maestro inarrivabile di dischi, mi sono chiesto come mai, cinquant’anni fa, non siamo mai riusciti a vedere i Genesis non ancora geneticamente modificati. Eppure venivano spesso a suonare in Italia, loro seconda patria quanto a fedelissimi seguaci (ancora oggi, il Gran Genesisista Mario Giammetti di Benevento pubblica una fondamentale rivista, Dusk, che ha costruito una enciclopedia genesisiana senza eguali). Fatto sta che li abbiamo ascoltati fino allo sfinimento sui 33 giri, corrodendo i long playing con le puntine del giradischi, ma non li abbiamo mai visti dal vivo.

 

Vivo e pulsante è ancora Peter Gabriel, il Gran Ragazzo del ’50 che ringrazio per aver citato le minoranze resistenti in Cina e i Rohingya di Myanmar e la Palestina (non ho sentito l’Ucraina ma c’era l’applauso per i palestinesi) e che perdono per non aver intonato, nel silenzio dell’Arena, Can you tell me where my country lies… e dimostra ancora di avere qualcosa da inventare, da dire, da cantare. Alternando gli hit consolidati (come la martellante Sledgehammer e il primo bis, In Your Eyes), a canzoni nuove con accompagnatori giovani e inediti – la tromba, il violino, il violoncello – a testimoniare la sempreverde giovinezza del suo rock colto e mondialista, aperto a influenze e visioni delle culture altre, lontane dal Brit Prog…

 

Se il finale, con Biko, è nelle mani e nelle bacchette del batterista Manu Katchè (ultimo a lasciare il palco dopo l’ultima pulsazione ritmica, un cuore profondo per il cuore di chi resiste) l’esordio del grande show, tre ore prima, era stato una sorta di primigenio rito tribale. Prima di sedersi a semicerchio con la sua band per i due pezzi acustici di prologo, Washing of the Water Growing Up, Peter accende un fuoco digitale da un finto falò che si illumina caldo, confortante: come dire che il fuoco e la musica sono antichi quanto gli esseri umani… Parola dell’Arcangelo Gabriele, Esploratore ed Evocatore di Suoni e di Senso nelle vene profonde della roccia del Rock.

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