Auguri ai giornali, ai direttori e ai trentini, ricordando Piero Agostini: tra Alto Adige-Trentino, Adige, il Dolomiti, Corriere e ''T'' lunga vita al pluralismo
Ragazzo del 57, giornalista dal 79, troppo piccolo per il 68, ha scansato il 77 ma non la direzione dell’Adige (8 anni 8 mesi e 3 giorni) e la politica (24 mesi in consiglio provinciale tra il 2018 e il 2020)
E così il 5 settembre 2022 è arrivato l’undicesimo, anzi il dodicesimo direttore del “nostro” Adige, nostro perché è UN giornale di Trento (non IL giornale di Trento, hanno ragione gli ex redattori del Trentino ex Alto Adige, da sempre altrettanto “trentino”), un giornale che appartiene ai trentini. A quelli che l’hanno letto e lo leggono. A quelli che lo fanno. Un giornale dei trentini prima di essere, oggi, una testata di proprietà della potentissima famiglia imprenditorial-politica sudtirolese che l’ha comprato nel luglio 2018, durante la campagna elettorale per le regionali, nella distrazione ventennale della politica e dell’imprenditoria del Trentino. Un giornale “nostro”, l’Adige, nel senso di noi, tanti, che nel corso dei decenni ci abbiamo lavorato con passione.
Per celebrare questo nuovo inizio, Pierluigi Depentori – che non conosco personalmente ma so essere bravo giornalista, auguri sinceri! – scrive, dopo la dovuta professione di antifascismo democratico: “Cari lettori, vi assicuro che non indietreggeremo di un millimetro nel cercare di fare sentire la vostra voce a chi deve prendere le decisioni sul futuro del nostro territorio”. La vostra voce? Ma la voce del giornale non è una voce propria, una voce forte e decisa che si confronta con quella dei potenti ma anche con quella dei lettori? Si vede che questo è lo stile modesto, e riverente al popolo, dei giorni nostri. In fondo anche un vescovo giornalista come don Ivan Maffeis ha detto più o meno la stessa cosa nel primo messaggio ai suoi nuovi fedeli della diocesi di Perugia: “Vengo fra voi per mettermi in ascolto di questa preziosa terra di santi e di bellezza, della quale chiedo con umiltà di divenire figlio”.
L’umiltà è bellissima ma se sei vescovo e dunque pastore, non puoi solo ascoltare, devi essere anche maestro e padre (dialogante), devi indicare la via. Analoga responsabilità spetta alla direzione di un giornale: esprimere un’idea del mondo, conquistarsi lettori su questa, dimostrare ogni giorno indipendenza di giudizio sia verso i poteri sia verso le mode e i conformismi popolari. Altrimenti, per essere solo veicolo delle idee dei lettori, non ci sarebbe bisogno di una redazione di professionisti giustamente retribuiti. E poi, quali lettori? Per definizione, i giornali locali hanno lettori di destra, di sinistra e di centro. L'idea di quale settore dei lettori sarà presentata “senza arretrare di un millimetro” ai governanti? Ecco, io spero che il nuovo direttore dell’Adige e la sua redazione abbiano un’idea del mondo e delle idee da proporre, mentre ascoltano i lettori grazie alla nuova casella di posta elettronica segnala@ladige.it. Anche perché, senza idee di spessore, senza inchieste di peso, senza “pensiero” e tribune di dibattito serio, non c’è futuro per i giornali (anche) di carta, che inseguono solo le notizie, battuti quasi sempre sul tempo dalle testate on-line e dai social.
Dicevo undicesimo, anzi dodicesimo direttore all’Adige. Un altro “papa straniero”, nel senso che Depentori, classe 1971, si è formato all’Alto Adige-Trentino, come quasi tutti i direttori dell’Adige, quotidiano nato nel 1946 come “Il Popolo Trentino” e poi ribattezzato nel 1951, quindi un settantenne ancora in gamba (tra le testate locali, lo batte però Vita Trentina, che si mantiene in vita dal lontanissimo 1926). Permettete dunque che noi cronisti seniores collochiamo le novità di questi giorni dentro una storia e una memoria collettiva.
Undicesimo anzi dodicesimo, conteggiando Gorfer. Tra Paolo Pagliaro e Giampaolo Visetti, nel maggio 1994, ci furono infatti – e vengono regolarmente dimenticati – 8 giorni di Adige firmati dal grande Aldo Gorfer, inviato storico del giornale, che però non ottenne la fiducia della redazione e decise di lasciare la palla al ventinovenne grintosissimo Visetti, che doveva essere il suo vice operativo. Oltre a Gorfer, il solo Amedeo Trentini (1984-1987) fu una scelta interna alla redazione dell’Adige. Gli altri direttori avevano tutti sciacquato i loro panni giornalistici altrove, prima di arrivare in via Rosmini o via Missioni Africane. Direzioni non lunghe, dopo quella storica di Flaminio Piccoli (30 anni e 9 mesi) affiancato nel ruolo di responsabile operativo a Trento, tra 1961 e 1977, da Marcello Gilmozzi, Giorgio Grigolli e Rino Perego. Solo Pierangelo Giovanetti e, prima di lui, chi scrive hanno triplicato o quadruplicato la durata media del direttore dell’Adige, che è intorno ai tre anni. (7 anni, in realtà, sarebbe a mio parere la durata aurea: una direzione abbastanza lunga per imparare dagli inevitabili errori dei primi anni, abbastanza breve per non annoiarsi e non annoiare il lettore).
Tre anni e tre mesi tenne il timone Piero Agostini, tra il marzo 1987 (redazione provvisoria in via Zanella, ora Rttr, prima del trasloco alle Missioni Africane) e il giugno 1990, roveretano sciacquato a Bolzano, uomo di cultura e grande giornalista, socialista impegnato nel sindacato e storico dell’autonomia. Agostini, il primo direttore non democristiano nella storia dell’Adige, il direttore della svolta che ha fatto entrare il giornale in una nuova era dopo gli anni tormentati del fallimento della società editrice piccoliana e del breve interregno di Cl prima dell’arrivo di un editore vero, Francesco Gelmi di Caporiacco. Mi piace ricordarlo, Piero Agostini con cui non ho mai avuto la fortuna di lavorare, a trent’anni dalla morte.
Quando, stupidamente, mi ero vantato polemicamente sull’Alto Adige di avere parlato al telefono, a Nairobi, con padre Alex Zanotelli che aveva smentito il “giallo” sulla sua permanenza in Kenya su cui l’Adige aveva fatto alcuni giorni di titoli roboanti, Piero Agostini sistemò per le feste il giovane cronista di piazza Lodron, maestrino e “pompiere”, affibbiandomi il soprannome di “Perequil” (un sedativo di cui ignoravo l’esistenza) e concludendo il pezzo con due righe sardonicamente implacabili che ricordo ancora: “L’Adige non ha rintracciato Zanotelli a Nairobi. Ghezzi gli ha parlato al telefono. Alla Sip” (l’antenata della Telecom) “andranno matti per uno come lui”. Cronista “declassato” a telefonista, insomma. Sul campo.
Tempi meravigliosi, comunque, irripetibili: l’Alto Adige ben oltre le 40mila copie (fra Trento e Bolzano), l’Adige lanciato verso le 20mila (e l’avremmo portato, dieci anni dopo, oltre le 26mila, che meraviglia). Certo, non c’era ancora il web ma il confronto con le copie cartacee vendute oggi è impietoso. Tornando indietro nel tempo, tutto diverso era il primo direttore dell’Adige che fugacemente incontrai, e uno dei due direttori non trentini della sua storia (l’altro sarà il bolzanino Paolo Pagliaro): Franco Franchini, che aveva cominciato come cronista di nera al “Popolo” (organo ufficiale della Dc, giornale tosto negli anni ruggenti) era romano e si sentiva, ed era il primo successore ufficiale del padre-fondatore Flaminio Piccoli, trentino ormai romanizzato nella sua proiezione di leader di calibro nazionale. Mi affidò a Rinaldo Sandri, colto capo della cultura, che diede all’aspirante giornalista alcuni trascurabili libri da recensire.
Poi però scrissi qualche pezzo sulla festa nazionale dell’Amicizia 1981 e sui ministri dc che venivano in passerella oltre la passerella (contestata e poi demolita) sopra la ferrovia di via Verdi. Il mio zio materno Luigino Mattei, firma di punta dell’Alto, non era in buoni rapporti con l’allora direttore Gianni Faustini (che peraltro stava per passare all’Adige) e dunque mi aveva consigliato, per i primi passi, di provare con il giornale concorrente. Moriva, all’inizio degli anni Ottanta, con un traumatico fallimento, l’Adige democristiano e il rinato Adige cercava faticosamente di rimontare sul giornale concorrente, l’Alto Adige, che era cresciuto fino a diventare il giornale leader del Trentino negli anni della crisi. Distavano 333 metri – tra piazza Lodron e via Rosmini (ora sede della facoltà di Legge) – i due quotidiani, tra loro: ma in realtà c’era in mezzo il mondo. Un mondo che si potrebbe simboleggiare nella Sociologia di via Verdi, proprio sulla strada tra l’Adige e l’Alto Adige. Nel Sessantotto e soprattutto nell’autunno caldo immediatamente successivo, il quotidiano democristiano aveva fatto le prediche al movimento e dato voce alla reazione spaventata dei trentini perbene, mentre l’Alto Adige fondato all’indomani della Liberazione raccontava quel che accadeva e – da quotidiano antifascista e laico – interpretava i tempi che stavano cambiando.
Da ragazzino già con il pallino del giornalismo, in casa leggevo l’Adige che comprava il papà Rubens, aclista moderato seppur figlio di socialista, ma intuivo che il vento del cambiamento soffiava nelle vele del giornale concorrente, il quotidiano dove lavorava appunto Mattei, inviato di punta e intelligenza laica, affiancato tra gli altri da Franco de Battaglia, testa fina e interprete delle nuove sensibilità sociali e ambientali del Trentino, e da Gigi Sardi, implacabile cacciatore di scoop giudiziari, il principe del tribunale. Sardi che poi mi farà da severo e ironico maestro quando, nel 1987, riuscii a passare da Vita Trentina all’Alto Adige, avendo aggirato, e ci volle un anno, il veto di un consigliere d’amministrazione democristiano: l’Isa di Bruno Kessler, finanziaria diocesana, era diventata azionista del quotidiano laico e dunque le cose si erano complicate e intrecciate.
Ancora prima delle concentrazioni oligopolistiche dell’attuale padrone bolzanino, le vicende di Adige e Alto Adige si sono spesso intersecate, anche se mai i due giornali avevano avuto lo stesso direttore contemporaneamente, come è accaduto negli ultimi tre anni e mezzo con Faustini junior. Il solo Faustini senior era stato direttore di entrambi: ma prima dell’Alto Adige e poi dell’Adige. E anche io avevo fatto quel percorso: dopo i 5 anni a Vita Trentina con Vittorio Cristelli, dieci anni in piazza Lodron, gli ultimi come capocronista di Trento, e poi su alle Missioni Africane. Visetti aveva convinto l’amministratore delegato Luciano Paris (complice il capo del marketing, l’amico musicofilo Danilo Curti) a chiamarmi all’Adige come caporedattore nell’estate 1997. Di Visetti avevo sconfinata stima e un sacro terrore: delle sue leggendarie capacità lavorative, della sua mitica tignosità, della favolosa spregiudicatezza. Quando, passato alla concorrenza, Visetti convinse l’editore a cambiare addirittura nome al suo e mio ex giornale, da Alto Adige a Trentino, annunciando un quotidiano radicalmente nuovo, vissi settimane di autentico stress…
Devo spiegare che, vent’anni fa, la concorrenza tra i due quotidiani (non era ancora nato il dorso trentino del Corriere della Sera) era davvero feroce. Io, per dire, soffrivo di un orologio biologico che mi svegliava alle 6.57 del mattino (anche se la notte precedente avevamo chiuso il giornale all’una di notte) perché potessi precipitarmi davanti alla tv (non c’erano le edizioni on line) e verificare quanti “buchi” (notizie in esclusiva) Visetti e i suoi ci avessero dato quella mattina. Inutile dire che i buchi dati mi inorgoglivano un po’ mentre i buchi presi mi gettavano in un giornalistico sconforto. Per fortuna la giostra ricominciava ogni 24 ore.
Inutile dire che, la mattina del fatidico giorno del debutto del giornale radicalmente nuovo, domenica 14 aprile 2002, mi alzai alle cinque e mezzo per poter essere all’edicola della stazione e poter sfogliare all’alba la nuova creatura di carta, il Trentino, che mi aveva procurato l’insonnia. Visetti aveva osato addirittura mettere la sezione Italia ed esteri in fondo al giornale, dopo tutte le cronache locali. Giampaolo il Rivoluzionario, l’Orso della Val di Sole, terrore di noi mortali, giornalisti normali. Qualche settimana dopo avrebbe fatto dietrofront, riportando Washington nelle pagine precedenti a quelle di Cles e Tione. Per fortuna, anche nel giornalismo nulla si crea e nulla si distrugge, per cui il cambio del nome e la campagna con il logo dell’orso si rivelarono inefficaci; il declino dell’ex Alto Adige e l’arrembante ascesa del nostro Adige continuavano…
Un declino che poi è continuato, nell’anomalia degli ultimi anni, di due giornali concorrenti in mano allo stesso editore… è finita male, malissimo, per i ventuno giornalisti del Trentino chiuso il 15 gennaio 2021. Per poi riaprirlo a breve? Vedremo se l’oligopolista andrà davvero a disturbare il nuovo quotidiano della cordata trentina che finalmente è nata. Ma intanto la chiusura del Trentino è stata una grave perdita anche per il pluralismo dell’informazione in questa provincia, che ha quasi sempre avuto tre voci quotidiane da confrontare ogni mattina nelle edicole. Il Gazzettino è stato una presenza preziosa tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta. Il Corriere del Trentino è stato ed è prezioso in questo nuovo secolo XXI.
E quindi ben venga il “T” di Simone Casalini, giornalista eccellente: una scommessa se si vuole anacronistica perché già venti anni fa gli impeccabili editori Marina e Sergio Gelmi erano pronti a cedere un Adige in piena salute a una cordata di imprenditori trentini sempre annunciata e sempre fantasma, e oggi gli spazi di mercato per un giornale cartaceo si sono ulteriormente ristretti, anche in virtù de il Dolomiti diretto da Luca Pianesi, un quotidiano sempre più forte che a ogni ora del giorno anticipa, spiazza, copre, scopre, provoca.
Comunque, in questa grigissima stagione della politica nazionale e provinciale, un nuovo quotidiano che si affaccia nell’autunno trentino va interpretato come un segno di vitalità della società civile, anche senza idealizzare le migliori intenzioni della cordata confindustrial-cooperativa che lo partorisce. La concorrenza, anche se stressa i concorrenti in gara, fa bene ai giornali e dunque fa bene ai lettori. Sempre che si convincano che la buona informazione non può essere gratis. Nel suo commiato ai lettori dell’Adige, il 15 giugno 1990, prima di passare a Bresciaoggi dove avrebbe trovato una prematura morte sul lavoro, la notte del 26 luglio 1992, Piero Agostini scriveva: “Amo la musica. Spesso mi sono persuaso che un giornale le assomigli, nel senso che è fatto di suoni, di tempi, di emozioni, ma anche di esattezza, di precisione, di rispetto dello spartito. Nei momenti più esaltanti – ora sono alla confessione pura, personale, quasi a una sorta di abbandono – m’è parso bellissimo che i casi della vita e la disponibilità di un Editore mi avessero concesso il privilegio di dirigere un’orchestra nella quale l’unica sapienza del direttore è quella di organizzare i suoni, disciplinare i tempi, esaltare il valore dell’insieme, valorizzare gli interventi dei solisti”.
Verissimo, Piero. Un grande privilegio, fare i direttori d’orchestra. E di giornale. Luca Pianesi sa già di che cosa parlo. Casalini e Depentori, nuovi direttori, ne proveranno il brivido, di paura e di piacere. In bocca all’orso.