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Integrazione Europea: ultima chiamata? Dal ReArm EU al ruolo degli stati nazionali, serve una mobilitazione generale di istituzioni e società civile

DAL BLOG
Di Orizzonti Internazionali - 11 marzo 2025

Docenti di studi internazionali dell'Università di Trento

Luisa Antoniolli – Scuola di studi internazionali – Università di Trento

 

 

La storia dell’integrazione europea, iniziata alla fine della seconda guerra mondiale, è costellata di momenti di difficoltà e crisi. Tuttavia, a partire dal nuovo millennio si è assistito ad una brusca accelerazione, e l’Europa è stata investita da una sequenza di crisi che per effetti, frequenza e ampiezza, ha messo a repentaglio le fondamenta della costruzione. Alla crisi economico-finanziaria del 2008 è seguita a partire dal 2015 la crisi migratoria, cui è succeduta la Brexit (il primo caso di uno Stato membro ha deciso di uscire dall’Unione europea) nel 2020, la pandemia di Covid19, e la crisi energetica e di sicurezza in seguito all’invasione dell’Ucraina da parte della Russia nel 2022. Molte di queste crisi hanno una genesi esterna all’UE, ma tutte hanno colpito in modo specifico la complessa macchina istituzionale europea. L’interazione e la sinergia fra le diverse crisi  (riflessa nel neologismo policrisi, coniato da Edgar Morin e utilizzata oggi dallo storico Adam Tooze), sta minando le basi del sistema, e costituisce un pericolo esistenziale per il processo di integrazione europeo.

 

Il 2025 si apre con un’ulteriore intensificazione della crisi sistemica: in seguito all’insediamento della nuova Amministrazione Trump a gennaio, un tornado ha investito l’ordine multilaterale internazionale, di cui l’Unione europea è un tassello importante. Nell’occhio del ciclone vi sono una molteplicità di aspetti cruciali: in primo luogo,  quello della sicurezza internazionale, e della difesa garantita nell’ambito della Nato, culminata nell’attacco frontale al governo Zelenski per costringerlo a negoziati di ‘pace’ con l’aggressore russo; l’ordine delle relazioni internazionali,  in seguito ad una richiesta perentoria e ingiustificata di acquisto del Canale di Panama e della Groelandia, per imprecisate ragioni di sicurezza nazionale, nonché con il disegno di smantellare di alcune delle più importanti organizzazioni internazionali (è stata addirittura proposta l’uscita degli USA dall’ONU); il commercio internazionale, minacciato dalla spada di Damocle di dazi utilizzati in modo aggressivo e imprevedibile per un mix di motivi economici e geo-politici; la tutela ambientale e la lotta al cambiamento climatico,  con la ripresa e accelerazione dello sfruttamento dei giacimenti di combustibili fossili (il famigerato ‘drill, baby, drill’); infine, e questo è probabilmente l’aspetto che più colpisce, un attacco frontale ai fondamenti della democrazia liberale, basata sulla divisione dei poteri, lo stato di diritto, la tutela dei diritti fondamentali e la libertà e il pluralismo dell’informazione. 

 

Ancora una volta, il tornado non nasce in Europa, e investe l’intero globo, tuttavia colpisce in maniera specifica l’Europa, più precisamente l’Unione europea, mettendone impietosamente in luce la natura incompiuta e asimmetrica. Nei decenni trascorsi dalla fondazione delle originarie Comunità europee negli anni ‘50, le competenze europee sono state enormemente espanse, toccando ambiti ben più ampi di quelli economici, fra cui anche quello della politica estera e di sicurezza. In parallelo, anche la dimensione geografica si è estesa, arrivando a coprire gran parte del continente europeo (oggi vi sono 27 Stati membri, e 10 Stati candidati). Questo indubbio successo del processo di integrazione europea, sia dal punto di vista dell’approfondimento delle competenze, che da quello dell’allargamento, è avvenuto però attraverso un percorso caratterizzato da molte discontinuità e incongruenze. Oggi l’Unione europea appare incastrata a metà del guado: non è più una semplice organizzazione internazionale, avendo competenze, istituzioni e regole ben più incisive; non è però uno Stato, nemmeno di natura federale. Questa sorta di ‘terza via’ consente sperimentazioni istituzionali innovative, ma rende indubbiamente fragile ed instabile il sistema, particolarmente durante i momenti di crisi sistemica. 

 

Che questo sia senza dubbio un periodo di crisi sistemica è unanimemente riconosciuto. Il consenso però svanisce immediatamente quando si inizia a discutere di quale sia il modello verso cui l’Unione europea debba tendere. E non si tratta di una questione teorica, ma drammaticamente pratica.

 

Per esemplificare, prendiamo il tema della difesa: i drammatici sviluppi del conflitto ucraino e il disimpegno degli Stati Uniti nel garantire la sicurezza anche in ambito Nato hanno evidenziato impietosamente i limiti della politica estera e di sicurezza (fra cui rientra anche la difesa) dell’Unione europea, in cui il ruolo preponderante degli Stati ha rallentato fino ad ora lo sviluppo di strategie e strumenti efficaci. Nonostante la consapevolezza dei cambiamenti in atto negli equilibri geo-politici mondiale (iniziati ben prima del nuovo governo Trump), gli Stati UE hanno colposamente scelto di galleggiare, facendosi trovare del tutto impreparati di fronte alle sfide epocali odierne.

 

Il nuovo pacchetto per la difesa UE da poco presentato dalla Commissione europea, il cd. ReArm EU, ha ottenuto l’avvallo del Consiglio europeo nella riunione del 6 marzo scorso, ed è stato salutato come un momento epocale di convergenza politica e strategica.

 

Se è vero che si tratta di una novità importante, è però altrettanto vero che il diavolo sta nei dettagli: il pacchetto, che prevede un finanziamento complessivo di 800 miliardi di euro, è basato su un mix di finanziamenti europei (150 miliardi, presumibilmente attraverso prestiti garantiti dall’UE), finanziamenti di progetti da parte della Banca europea degli investimenti e finanziamenti privati, ma soprattutto attraverso finanziamenti nazionali di spese militari, consentiti attraverso la sospensione del Patto di stabilità (che pone rigidi limiti all’indebitamento pubblico nazionale). Questo significa che gran parte delle spese, e quindi anche gran parte delle decisioni, continueranno ad essere prese dagli Stati, riservando all’Unione europea solo un ruolo di coordinamento. Occorrerà attendere le proposte legislative della Commissione per avere un quadro più chiaro degli strumenti e delle modalità di funzionamento, ma la direzione appare chiara, ed è la stessa che abbiamo percorso fino ad ora: quando il gioco si fa duro, gli Stati, al di là delle affermazioni retoriche, rivendicano i propri interessi nazionali ed il controllo delle politiche europee. Non va dimenticato che in Europa la spesa per la difesa complessivamente è elevata, e la sua inefficienza ed inefficacia è dovuta innanzitutto alla mancanza di integrazione, cooperazione e interoperabilità delle capacità militari.

 

Seppure ben nota, questa strategia non può più funzionare: in un contesto di cambiamenti epocali, ‘business as usual’ non è un’opzione. Per avere una politica di difesa genuinamente europea, occorre avere una politica estera e di sicurezza genuinamente europea. E per fare questo, non basta mobilitare dei finanziamenti, per quanto imponenti ed urgenti. Occorre avere una visione condivisa e alta dell’Unione europea, in cui ogni cittadino possa riconoscersi, per poterla costruire e difendere. Occorre una mobilitazione generale, da parte delle istituzioni e della società civile. Verrebbe da dire, se non ora, quando?

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