Tredici Racconti stonati, ma non troppo… al tempo del coronavirus: ''La frontiera scomparsa'' di Sepúlveda e la ricerca incessante della felicità
Socialista dal 17° anno d'età, continua a dedicarsi allo studio del pensiero progressista e democratico
Il mio "volo" letterario parte con "La frontiera scomparsa" di Luis Sepúlveda, lo scrittore cileno cosmopolita perseguitato al tempo della dittatura militare, scomparso proprio al tempo del coronavirus. Egli racconta di essere stato brutalmente respinto alla frontiera tra Argentina e Bolivia: avrebbe voluto poi risalire verso Panama e da lì cercare un imbarco verso la Spagna per Martos, paese d’origine dell’amato nonno Gerardo, l’anarchico che gli lasciava fare pipì sulle porte delle chiese.
A La Quiaca, ultimo lembo di terra argentina, fraternizza con un vecchio ferroviere mangiando e bevendo in abbondanza. In quell’osteria riceve le istruzioni giuste: il treno per La Paz parte tra le otto e mezzogiorno, ma ci si deve presentare di buonora – alle sei – per fare il biglietto: "Alla biglietteria i boliviani ti diranno che non c’è più posto, che sono già stati venduti tutti i biglietti. Ti diranno così. Quei figli di buona donna. E sai allora cosa devi fare? Devi piegare una banconota, di quelle da cinquanta sacchi, capisci cosa intendo?".
Segue il consiglio alla lettera, ma quando attraversa il ponte che separa l’Argentina dalla Bolivia e si avvia verso i binari ("La frontiera inizia con il treno" gli aveva precisato l’amico ferroviere) ecco un picchetto di militari scendere d’improvviso da un camion. Presero lui e un argentino seguace degli Hare Krishna, testa rapata e mantello arancione: aveva con sé tutti i biglietti per la sua ambita meta, Calcutta-India. Li buttarono a terra, pancia in giù e mani sulla nuca, sotto il sole cocente. Seguì tra loro un conciso dialogo: "Che succede, fratello?" mi chiese sottovoce. "Chiudi la bocca o te la chiuderanno loro". "Ma cosa abbiamo fatto, fratello?". "Forse abbiamo chiamato fratelli dei figli unici". Li mollarono alle cinque del pomeriggio, il treno era partito da ore: vennero espulsi dalla Bolivia come indesiderabili.
Dall’altra parte del ponte li aspettava il ferroviere argentino, con una caraffa d’acqua per dissetarli. "Avete avuto fortuna, ragazzi – disse il vecchio – quelle belve avrebbero potuto portarvi in caserma, e allora addio pampa mia". L’arancione si dichiarò comunque sicuro di poter raggiungere Calcutta, un giorno o l’altro. Un desiderio intimamente condiviso dall’amico di sventura: sarebbe stata la dimostrazione che "almeno uno su mille" ce la fa, come riporta il racconto e come sostenuto nella notissima ‘chanson’ di Gianni Morandi degli anni ‘80. Forse Sepúlveda – che scrisse "La frontiera scomparsa" nel 1994 – potrebbe aver attinto quel convincimento desolato ma incrollabile proprio da quella canzone, di cui venne data una versione in spagnolo nel 1992 con grande diffusione nell’America latina.
Dunque, uno su mille ce la fa… ce la fa a ritrovare "la sua frontiera scomparsa, quella che ci permetteva di entrare nei territori della felicità". Sì, perché Sepúlveda più che raccontare un avvenimento effettivamente svoltosi, qui ci tiene ad immaginarlo. È l’inseguimento della felicità – probabilmente vano ma incessante – il suo itinerario inconcluso, come gli aveva sussurrato in una notte d’amore quella donna incontrata sul percorso verso la frontiera: "Un tempo era così facile andare nel paese della felicità. Non era su nessuna cartina, ma sapevamo tutti come arrivarci. Adesso la frontiera è scomparsa". Sì, ora solo qualcuno la ritrova, forse uno su mille.