"Sopra i 7.900 metri la linea di confine fra la giusta dote di zelo e la sfrenata febbre della vetta diventa pericolosamente sottile'', l'alpinismo, trionfo del desiderio sul buonsenso?
Socialista dal 17° anno d'età, continua a dedicarsi allo studio del pensiero progressista e democratico
Cos’è l’alpinismo, quell’agonismo sportivo attratto dalla montagna, originatosi sulle Alpi alla fine del 1700 e poi allargatosi a tutte le vette del mondo? Ho indagato sulla vasta questione – con esito inevitabilmente limitato e alfine contraddittorio – attraverso un corposo libro omaggiatomi all’inizio della mia età pensionistica nel 2020, trovando anche il tempo giusto per leggerlo attentamente, dato che coincideva con i lunghi confinamenti (lockdown nel gergo internazionale) imposti dal coronavirus: si tratta di Aria sottile, scritto alla fine dello scorso secolo – e poi continuamente ripubblicato – dal giornalista e alpinista nordamericano Jon Krakauer.
Verso la fine della sua drammatica cronaca dell’ascesa sull’Everest nel maggio 1996, Krakauer presenta la sua versione: "Si tratta di un’attività che idealizza il rischio; l’alpinismo non sarà mai un’attività sicura, prevedibile, soggetta a norme precise. Le figure più celebrate di questo sport sono sempre state quelle che rischiano di più e riescono a cavarsela. Gli scalatori, come specie, non si distinguono certo per l’eccesso di prudenza, e questo è particolarmente vero nel caso degli scalatori dell’Everest: quando si trovano di fronte a una possibilità di raggiungere la vetta più alta del pianeta, la storia insegna che gli uomini fanno sorprendentemente in fretta ad abbandonare il buonsenso. Prima o poi – ha ammonito l’alpinista e medico americano Tom Hornbein, trentatré anni dopo la sua scalata dell’Everest nel 1963 – quello che è accaduto in questa stagione si ripeterà senz’altro".
Cosa era successo in quella primavera del 1996? In sole ventiquattro ore, tra il 10 e l’11 maggio, morirono nove persone facenti parte delle spedizioni guidate dal neozelandese Rob Hall e dallo statunitense Scott Fischer, due espertissimi alpinisti e organizzatori di imprese estreme. Krakauer in Aria sottile – pubblicato nel 1997, ampliando un lungo articolo riportato sulla rivista “Outside” – conferma fin dall’introduzione che "tentare di scalare l’Everest è un atto irrazionale di per sé, un trionfo del desiderio sul buonsenso".
Quel desiderio, quella bramosia si accentuano mano a mano che si sale, poiché a quelle altissime quote la fragilità della mente umana diventa totalizzante. Ed è fuorviante ritenere che l’Everest, con l’assistenza di guide e spedizioni commerciali super pagate sia una meta accessibile a chi abbia anche un’ottima preparazione fisica. L’aveva scritto alla moglie ancora nel 1921 il grande alpinista britannico che per primo tentò la scalata della somma vetta: "L’Everest – precisava George L. Mallory – ha i crinali più ripidi e i precipizi più spaventosi che abbia mai visto, e tutto quel parlare che si fa di un facile pendio di neve non è che una favola". Mallory l’8 giugno 1924, con il compagno di scalata Andrew Irvine, arrivò in prossimità della cima, ma non c’è certezza che l’abbia raggiunta: i due scalatori poi scomparvero e perirono sulla parete Nord dell’Everest. La vetta sarà sicuramente raggiunta solo il 29 maggio 1953 dal neozelandese sir Edmund Hillary e dallo sherpa Tenzing Norgay.
Krakauer è implacabile nel descrivere cosa succede nella mente di un alpinista estremo: "La passione per la montagna fa sì che gli alpinisti, uomini e donne che siano, non si lascino sviare facilmente dai loro obiettivi: a quel punto della spedizione, ormai prossimi alla meta, tutti noi avevamo subìto disagi e pericoli che già da tempo avrebbero fatto scappare a gambe levate degli individui più equilibrati". Sono personalità – continua – insolitamente tenaci, programmate per ignorare i malesseri personali e continuare a puntare sulla vetta, ignorando i segnali di pericolo grave e imminente: "Sopra i 7.900 metri la linea di confine fra la giusta dote di zelo e la sfrenata febbre della vetta diventa pericolosamente sottile: è per questo che le pendici dell’Everest sono costellate di cadaveri".
Krakauer si rivolge non solo a tutto quel variegato mondo di scalatori estremi ma direttamente e principalmente a sé stesso: "Sono salito sull’Everest pur sapendo di sbagliare e così facendo ho contribuito alla morte di tante brave persone". Eh, sì: il suo resoconto ha originato tante polemiche e contestazioni perché vi si potevano intravedere parecchie disattenzioni verso i compagni di ascesa. Peraltro Krakauer non era una guida, ma un giornalista incaricato dalla rivista “Outside” di descrivere lo svolgimento di una spedizione ''commerciale''. Eppure doveva esserci solidarietà comunque tra i partecipanti, e invece…Sì, Krakauer ammette esplicitamente le sue omissioni, finanche le sue colpe, tanto fin lassù – ho pensato – la polizia giudiziaria difficilmente può spingersi a discernere gli accadimenti: a volte ho anche avuto l’impressione che lo facesse per avere il destro di meglio accanirsi sulle colpe degli altri, come ad esempio sulla guida Anatoli Boukreev, col quale tuttavia nella postfazione del libro, scritta nell’agosto 1998, avrebbe voluto riconciliarsi: cosa impossibile perché Boukreev perì in una spedizione del Natale 1997 sull’Annapurna.
Bisogna tuttavia registrare due passaggi che fotografano lo stato di prostrazione degli alpinisti, come la gelida ammissione di omesso soccorso fatta dallo scalatore Eisuke Shigekawa: "Eravamo troppo stanchi per aiutarli. Al di sopra degli ottomila metri non ci si può permettere il lusso della moralità". Il secondo passaggio riguarda Krakauer stesso: "In quel posto dimenticato da Dio, mi sentivo privo di contatti con gli alpinisti intorno a me, in senso emotivo, spirituale e fisico, a un livello che non avevo mai sperimentato nelle spedizioni alle quali avevo partecipato in precedenza. Formavamo una squadra solo di nome, ero costretto a riconoscere con amarezza: anche se fra poche ore avremmo lasciato il campo in gruppo, avremmo compiuto la scalata singolarmente, senza essere uniti l’uno all’altro né da una corda né da un profondo senso di lealtà". Si deve precisare che parliamo di spedizioni ‘commerciali’, dove i legami sono temporanei e interessati, ma temiamo che in quelle temperie anche altri gruppi più consolidati e solidali si sarebbero comportati allo stesso modo.
Scrive ancora Krakauer, che dalla rivista “Outside” aveva avuto il compito di verificare la qualità delle organizzazioni e dei partecipanti alle spedizioni commerciali: "Le persone meno qualificate sull’Everest non erano affatto clienti delle guide, bensì membri di spedizioni non commerciali organizzate in modo tradizionale". L’autore aggiunge più avanti che "lo sporco profitto" poteva attrarre gli organizzatori delle spedizioni che facevano pagare più di 60 mila dollari ai singoli clienti. Ma subentravano anche altre voci che potevano intrigare sia i ''profittatori'' che gli appassionati paganti, insieme agli scalatori tradizionali: "la celebrità, la titillazione del proprio ego, la solita vanagloria…".
Eppure non basta: sopra tutto e sopra tutti incombeva – segnatamente per l’Everest – la ricerca quasi ''calvinista'' della messa in prova della propria resistenza al dolore, trovando infine – nel rapporto tra lo struggente piacere dell’avanzata verso la vetta e la sofferenza dell’immane fatica – la possibilità di accedere a "qualcosa di simile a uno stato di grazia", ad una condizione di particolare euforia e ispirazione. Forse in quest’ultime parole ho trovato una risposta quasi definitiva, che altri sapienti hanno stentato a darci: l’ascesa alle montagne più alte del mondo non era un giuoco, uno sport, o un affare. Somigliava alla vita mortale, solo che era «straordinariamente» più ricca di luci immense e di terribili ombre.
La mia esperienza personale mi riporta però a considerazioni più "ordinarie". Fin da giovanissimo vado sui nostri monti, prima per seguire mio padre casaro di montagna, poi con la Società degli alpinisti tridentini con la quale ho raggiunto tante vette dell’arco alpino, dal Monte Bianco all’Ortles. Non ho quasi mai trovato piacere in una sorta di "lotta coll’Alpe", come invece ancora proclama Guido Rey nel motto che appare sulla tessera di Cai-Sat.
Spronato comunque dalla passione, perfino dall’amore, per le montagne ho cercato più quietamente in esse e con esse "un contatto più diretto con mondo, un’immersione totale nella natura". È un sentimento che viene confermato e suggerito dalla recente presentazione del libro di Franco Michieli, L’abbraccio selvatico delle Alpi. Una traversata alpinistica sotto il sole e le stelle, dall'adolescenza verso l'ignoto, che è un elogio dell’alpinismo prudente. Scrive: "Quello che ci deve guidare in montagna e nella vita, in generale, è la prudenza, che significa essere in armonia con ciò che ci circonda, conoscendolo così bene da capirlo". Precisa di seguito: "L’evoluzione ci ha fatti adatti a vivere nel selvaggio, non a venirne schiacciati. La spiritualità nasce come rapporto di fiducia con l’invisibile che anima la natura: una fiducia molto prudente, rispettosa, mai spavalda, ben diversa dall’azzardo mediatico di tanti exploit sportivi".
La prudenza dunque come segno di fortezza, non conseguenza della paura. Tornano alla mente – visto che Michieli ci ha appena invitato alla prudenza "in montagna e nella vita" - le parole inascoltate di Peleo al focoso figlio Achille: "Essere miti, questo è essere forti". Parlavo in principio di esito contraddittorio della mia limitata indagine sul significato dell’alpinismo. E più contraddittorio di così, non si poteva. Ma la nostra ricerca continua.