Le vere speranze vanno riposte negli affetti e non nel denaro, il libro di Charles Dickens per ''Tredici Racconti stonati, ma non troppo…al tempo del coronavirus''
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In età adulta per leggere romanzi ponderosi che si dovevano sfogliare in età più verdi, occorre essere spronati a farlo da qualche consiglio che reputiamo autorevole: è il caso di Grandi speranze di Charles Dickens (1812-1870), oltre seicento pagine nell’edizione Mondadori del 1991: riposto lì nello scaffale, quel testo l’ho ripreso in mano su suggerimento di Giovanni Pacchiano, gran professore di letteratura, che lo considera "il capolavoro di Dickens" facendolo leggere integralmente ai suoi studenti; ma della stessa identica opinione era pure Piergiorgio Bellocchio, il fondatore della rivista “Quaderni Piacentini”, benché dello scrittore inglese siano più noti Oliver Twist e David Copperfield. E allora avanti con la fluviale lettura, favorita anche – è onesto ricordarlo – dagli spazi temporali imposti dalla pandemia in corso nel 2020 che, guarda caso secondo le scanzonate parole dello scrittore Alessandro Piperno, ha proprio "costretto alcuni di noi a chiudersi in casa a leggere Dickens".
È la storia di Philip Pirrip detto Pip, da quando era bambino fino all’età adulta. Da infelice derelitto cerca di diventare gentiluomo, grazie ad un lascito in denaro ottenuto da un anonimo benefattore; da qui le "grandi speranze" di riscatto sociale approdando nell’alta società londinese, che tuttavia non avranno l’esito desiderato. Dovrà accontentarsi di una vita da impiegato, ritornando infine nei luoghi d’infanzia. E qui ritrova l’amata di un tempo, Estella, con la quale ritesse un’amicizia almeno cordiale, o forse qualcosa di più. Non lo si capisce bene: ma comunque c’è un quieto lieto fine. Estella infatti al tempo giovanile non aveva corrisposto l’amore di Pip, si era sposata con un uomo brutale, che nel frattempo era morto. Ora Dickens – con la mano dello scrittore fecondo e intrigante – ci appronta addirittura due finali che secondo le edizioni vengono alternativamente proposti. In uno Estella si è "appena risposata" ma a Pip appare "diversa dalla ragazza dal cuore di ghiaccio" di un tempo e sembra aperta a capire il sentimento amorevole che Pip da sempre le ha riservato.
Nel secondo finale, che è quello della nostra edizione Mondadori, non si accenna alla circostanza che Estella si sia "appena risposata" e si riesce a intravedere una prosecuzione più gioiosa, anche se non esplicitata formalmente: "non ci sarebbe stata più l’ombra di un altro addio" sono le ultime parole del romanzo che se non costituiscono una 'grande' speranza, sono il presupposto di una serena felicità. In ogni caso c’è un lieto fine che arriva inaspettato e che costituisce – come ci spiega Piero Citati nelle sue sapienti e profonde ricerche – la cifra del lavoro letterario di Dickens: "Non può esserci romanzo, pensava Dickens, senza il lieto fine: solo il lieto fine permette il libero scatenarsi del tragico, del comico, del pittoresco, del fantastico, dell’inverosimile". E puntualizza: "Non importa che il lieto fine sia inverosimile, perché solo l’inverosimile – l’inverosimile di Shakespeare e delle Mille e una notte – può esprimere secondo Dickens la ricchezza dell’universo".
È una ricchezza che ha permesso a Dickens di veicolare nell’epoca vittoriana tante scene di vita, colme di lacrime ma anche di risa, indirizzandole verso una critica beffarda dei mali sociali del mondo inglese. "Egli è uno dei rari scrittori – aggiungerà Giuseppe Tomasi di Lampedusa – che abbiano contribuito a buttare giù costumanze incivili servendosi non dell’invettiva ma del ridicolo". La grandezza dello scrittore riuscirà a rendere fruibile quella critica ad un vasto pubblico non abbiente, seguendo la tecnica allora in voga di pubblicare i romanzi a puntate su riviste settimanali o mensili. E per rendere appetibile ogni nuovo episodio si doveva essere abili nel creare aspettative, tra tante peripezie talora ridicole, spesso tragiche, fino al "lieto fine". Una tecnica ben spiegata da un altro scrittore inglese del tempo, amico e collaboratore di Dickens, Wilkie Collins: "Falli ridere, falli piangere, falli aspettare".
Abbiamo sottolineato la particolare vocazione di Dickens alla critica di una società altolocata, che considerava "la povertà come un peccato" e "la disoccupazione come una forma di pigrizia". Tra questi punti critici c’è un aspetto particolarmente deleterio, che risulta basilare nello svolgimento di Grandi speranze: l’oscuro benefattore di Pip si rivela essere il malfattore Magwitch, l’evaso che aveva costretto il bambino a portargli del cibo e una lima con cui segare le catene che si stava trascinando dietro nella fuga. L’evaso sarà poi ripreso e deportato in Australia. È qui che al lettore si apre 'un mondo a parte' da scoprire: perché in Australia? Indaghiamo solo un poco e ci sovviene che l’Australia era stata prescelta dalla fine del 1700 come colonia penale nella quale trasportare colpevoli – anche di delitti minori – per sfoltire le prigioni inglesi, non capienti nella misura necessaria.
Quel nuovissimo continente – scoperto dal capitano Cook nel 1770, dove vivevano tra 300.000 mila e 1 milione di nativi, definiti 'aborigeni' – divenne quindi una prigione a cielo aperto. I deportati erano soggetti comunque a feroci sorveglianze esercitate anche dagli 'aborigeni', prima sottomessi e poi addestrati dagli inglesi alla ricattura – vivi o morti – dei fuggiaschi. Si calcola che il periodo che arriva fino al 1867, circa 160.000 persone siano state qui deportate, tanto da poter parlare di una anticipazione dei 'Gulag’ novecenteschi. Il fatto sorprendente è che sia accettato ancor oggi come 'Australian Day' il 26 gennaio, la festa nazionale australiana con riferimento a quel 26 gennaio 1788 in cui una flottiglia inglese sbarcò nei paraggi della Sydney attuale oltre settecento forzati, di cui quasi duecento donne.
Giunsero lì dopo sette mesi di navigazione in condizioni spaventose, con malattie e maltrattamenti tali da portare ad una cinquantina di morti, situazioni che si sarebbero riproposte nei trasferimenti successivi fino alla prima metà dell’Ottocento, per interrompersi definitivamente nel 1867. Non è quindi che la 'civile' Inghilterra esca bene da questa storia. Tuttavia – e qui torniamo al nostro romanzo e all’introduzione di Alessandro Monti – i deportati in Australia "pur in condizioni di forte limitazione dei diritti, compresa quella di non poter ritornare in Inghilterra anche dopo aver scontato la pena", potevano accedere ad un regime di semilibertà «dopo certi anni e garanzie di buona condotta» e svolgere anche attività economiche remunerative, come successe a Magwitch: nel romanzo però lui torna in Inghilterra per il forte desiderio di rincontrare Pip ma ciò era ancora vietato e punito dalla legge.
C’è dunque qualche fiacca luce – quella semilibertà pur condizionata dai citati divieti – tra tante ombre che incupiscono le relazioni sociali inglesi nell’Ottocento, denunciate con efficacia nei romanzi di Dickens. Ombre alle quali non sfugge infine neppure il nostro venerato autore, pronto a denunciare le penose condizioni delle classi popolari inglesi ma anche ad infierire con alterigia nazionalistica contro altri popoli sottoposti al dominio britannico. È il caso nel 1857 della rivolta dei sepoy, soldati nativi dell’India inquadrati nell’esercito di sua maestà: contro di loro Dickens invoca – come il peggiore dei razzisti – di "procedere con sollecitudine e misericordiosa rapidità di esecuzione per sradicare quella razza dalla faccia della terra".
Misericordiosa? Comunque si esamini la questione, anche noi – che cerchiamo di rifuggire dal perbenismo oscurantista e indiscriminato della montante ''cancel culture'' che elimina dalla storia o squalifica personalità del passato di cui con gli occhi odierni si giudicano comportamenti e omissioni – non possiamo che rilevare l’insolenza 'suprematista' dell’onorato maestro: non abbiamo l’alternativa di valutare se la colpa sia vera o presunta, è lì, evidente e per tanto che si faccia per mettersi nei panni del protagonista e nella temperie dei suoi anni, non riusciamo a giustificarlo. Ci resta ancora da considerare il monito di Immanuel Kant: "Dal legno storto, come è quello di cui l’uomo è fatto, non può uscire nulla di interamente dritto". Ma anche questo non basterà.