''È il desiderio tormentoso di raggiungere la perfezione a impedirmi di essere grande'', il libro Jules Renard per ''Tredici Racconti stonati, ma non troppo…al tempo del coronavirus''
Socialista dal 17° anno d'età, continua a dedicarsi allo studio del pensiero progressista e democratico
Potremmo chiamarlo un "mediocre di successo", Jules Renard (1864-1910). La definizione, anche se non del tutto testualmente, risale a lui medesimo. Nel grande Ottocento letterario francese – segnala Antonio Debenedetti sul “Corriere della Sera” – sentiva di non poter primeggiare con Victor Hugo o Balzac e si prendeva in giro definendosi un "Maupassant da taschino" oppure un "Flaubert da salotto". Eppure è questa stessa consapevolezza di non essere grande, di essere "solamente il primo dei piccoli scrittori del suo tempo" che lo rende attraente per i suoi lettori del XXI secolo, dopo aver visto tanti presunti eroi dell’eccellenza e della notorietà finire nella polvere e nel dimenticatoio. Il suo modo di dire e di fare addolcisce le pretese di ognuno di noi, giustifica i nostri mancati successi e le nostre insoddisfazioni con iperboliche affermazioni come queste: "È il desiderio tormentoso di raggiungere la perfezione a impedirmi di essere grande".
Eppure grande lui lo è stato davvero, a sua insaputa forse. André Gide (1869-1951), premio Nobel per la letteratura, l’ha dichiarato esplicitamente quando Renard era ancora in vita e operante: "Ammiro Jules Renard, lo ammiro come se fosse morto – tanto sono stupito come si scriva così bene oggi. Lo rileggo come un classico".
Abbiamo prima riferito della sua disperazione di sapersi solo "un piccolo scrittore". Magari ero solo una posa, che tuttavia lo conduce a rinunciare alle lunghe trame del romanzo per preferire il racconto. "Teorizza il bisogno di scrivere breve – annota ancora Debenedetti – senza trascinare una storia facendola procedere a spallate".
Eppure un altro commentatore, Antonio Castronovo, magnifica invece lo stile di Renard, quel gusto per "la pagina condensata ma perfetta", quella "maestria della concisione" che lo porterà a quella classicità, già evocata da Gide, legata "alla limpidezza che si conquista col culto delle parole semplici ed esatte". L’elogio della brevità, che risale fin dal tempo dei tempi al poeta greco Callimaco (310-235 a.C.) e al suo detto secondo cui «un grande libro è un grosso guaio», ci fa dunque da ottimo viatico per una rapida ma intensissima immersione nei racconti dedicati al mondo della piccola borghesia di campagna e città.
Ne L’uovo di gallina e poi nel cinico Il secchio, Renard racconta con "crudele umorismo" - così lo definisce Castronovo – la parabola sessista di Émile, giovane rampollo dei Lérin, una benestante famiglia campagnola. Émile facilmente intriga la domestica Françoise su un mucchio di fieno: "… la trattenne, la soffocò, l’abbracciò, e la baciò con impeto, rapidamente, senza dire una parola". E la giovinetta, coperta di fieno, si giustifica con la signora Lérin, raccontandole di esser andata alla ricerca di uova: "Pieno di uova lassù, ne ho anche rotto uno". La madre di Émile si doveva esser accorta di qualcosa, ma «andò avanti in modo naturale: ''Bisogna fare attenzione, Françoise, le uova sono poche quest’anno".
Ma ecco che viene Il secchio, il racconto successivo. "Sapete, sono incinta – aveva confessato Françoise a Émile – colpendolo con un dito sulla spalla". Non aveva osato darle del tu, "non era affatto una di quelle contadine che s’inorgogliscono con un borghese", ma deve rimediare da sola. Era diventata "da qualche tempo abbastanza pigra", poveretta; poi passa segretamente a liberarsi del bambino, lo ripone nel secchio di latta del pozzo, calandovelo lentamente. Non sappiamo se Émile è triste, ma "sollevato" lo è senz’altro. Si preoccupa comunque che Françoise "per prima cosa si rimetta", chiedendo in famiglia che le vengano riservate "una o due settimane di riposo": è sicuro che, in questo, sua madre "non sarà più fastidiosa di un complice discreto".
Il velo di tanto perbenismo è rotto da un’apprensione (e che apprensione): come farà a bere a tavola l’acqua del pozzo senza mostrare disgusto? Finirà anche nell’imbattersi – sterrando un angolo di campagna alla ricerca di piccoli vermi per le esche da pesca – in uno "straccio rosso e fangoso"… la placenta, "il sacchetto viscido del mio crudo piacere" rammenterà in seguito, ancora emozionato.
Una crudeltà più lieve avvolge gli altri racconti dedicati ad una famiglia piccolo-borghese di città, i Bornet. Qui l’ironia ha la meglio. Scoppiettante è la successione degli smacchi registrati ne La torta avariata. Avevano comprato una torta costosissima e invitato a cena prima i Lafoy, che però all’ultimo momento si resero "indisposti".
Ripararono allora per il giorno dopo sui Nolot, ma anch’essi declinarono l’invito un’ora prima di cena. Ah, povera torta, si stava proprio guastando, e quanto era costata. Si accinsero a mangiarla da soli, arricciando un po’ il naso. Allora al signor Bornet venne l’idea di offrirne una parte al portiere. Ma anche questi rifiutò, perché non sopportava le uova, ma le torte non possono essere fatte senza uova. Gli diedero dell’imbecille e rassicurarono la loro umiliazione pensando che quel rifiuto l’avesse fatto per orgoglio: "Moriva dalla voglia di accettare", si dissero. Ma ecco la perla finale: restava la loro cameriera, perdio. Ma costei finì per infliggere loro l’umiliazione totale: "Signora – disse – non sono venuta qui per mangiare le vostre torte andate a male". Come poteva reagire la compassata coppia Bornet? Ma appioppandole gli otto giorni, preludio del licenziamento in tronco. Così si fa, tra "gente onorata".
L’onore è manchevole anche nell’altro racconto, La barca a vapore. I Bornet fanno le stesse identiche cose dei loro vicini, i Navot; "le due famiglie menano buoni rapporti, simpatizzano al punto da imitarsi". Ma improvvisamente si addensano le nubi della rottura. Avevano due piccole barche, uguali, della stessa forma e dello stesso colore. Un giorno mentre stavano per recarsi all’abituale vogatura, i Bornet intravedono da lontano che dal piccolo battello dei Navot fuoriesce il fumo tipico di una barca a vapore. "Caspita – sbottano – non rinunciano più a nulla, i nostri amici". Sono risentiti moltissimo, i Bornet: i loro presunti amici hanno fatto tutto senza avvisarli, per stupirli – peggio – per umiliarli. "Non dimenticherò mai nella mia vita come si sono comportati" strilla la signora Bornet. Ma all’improvviso, come si era delineata l’offesa, altrettanto repentinamente arriva il sollievo. E i Bornet tornano "buoni, soddisfatti, felici in questo mondo dove tutto trova sempre una spiegazione". I fiocchi di fumo che da lontano avevano visto fuoriuscire da un fumaiolo nero, altro non erano che copiosi sbuffi di un fumatore, amico dei Navot: se ne stava placidamente seduto tra i due coniugi "sotto il suo alto cappello di un nero che brilla al sole".