Il contrasto tra il ritmo tenuto dai morti e la paralisi dei vivi, le danze macabre decorano le chiese, anche quelle trentine
Rapito dalla Montagna anni fa, pratica escursionismo, percorre vie ferrate e frequenta qualche falesia e palestra di roccia.
Le danze macabre sono decorazioni del cimitero: affreschi che coprono i muri degli ossari o anche sculture sui capitelli delle colonne dei portici.
Questo tema nacque in terra franco-germanica, mentre l’Italia ne rimase estranea o indifferente: come sappiamo bene lo avrebbe accolto solo più tardi e nelle regioni settentrionali come ben testimonia da noi quelle celebri sulle chiese di Pinzolo e di Carisolo ad opera di Simone II Baschenis.
La danza macabra era un girotondo senza fine dove si alternavano un vivo ed un morto. I morti guidavano il gioco ed erano i soli a ballare. Ciascuna coppia si componeva di una mummia nuda, in stato di decomposizione, asessuata e molto movimentata, e di un uomo o una donna in abiti conformi alla propria condizione economica e sociale, in atteggiamento stupefatto. La Morte accostava la propria mano al vivo che stava per trascinare, ma che ancora non aveva ceduto.
L’arte stava nel contrasto tra il ritmo tenuto dai morti e la paralisi dei vivi. La finalità morale stava nel ricordare ad un tempo l’incertezza dell’ora della morte e l’uguaglianza degli uomini davanti a Lei. Tutte le età e tutte le condizioni sfilavano in un ordine che era quello della gerarchia sociale com’era concepita all’epoca. I vivi non erano preparati all’incontro fatale, ma non lasciavano trasparire nè profonda angoscia, nè ribellione: appena un rimpianto attenuato dalla rassegnazione. E’ curioso il fatto di vedere trasparire qui l’antico sentimento di bonaria accettazione del destino.
L’elemento della Danza rimase sostanzialmente inspiegato e va probabilmente inteso in senso quasi metaforico: la danza della morte, nel linguaggio del XV secolo, la si compie ogni qualvolta ci si trovi costretti a lottare e senza esito favorevole con Lei. L’alto valore della Danza è proprio qui: nell’aver espresso cioè il senso della morte di una collettività attraverso degli incontri in cui la tragedia del singolo non è meno drammatica di quella di tutti i suoi simili presi nel loro insieme. Poiché ogni condizione sociale vi è rappresentata, non solo questa vi si riconosce tra le vittime, ma ognuna conserva la propria individualità e reagisce diversamente.
Non si vuol più affermare soltanto l’uguaglianza di qualsiasi condizione sociale di fronte alla morte, ma anche ribadire che essa sola basta a fare da contrappeso alle passioni e agli slanci, agli errori e alle verità degli uomini. Senza inferno e paradiso, la Morte per la sua stessa realtà sconvolgente basta da sola a dare alla vita un senso tragico e impossibile da dominare. Ancora una volta la sensibilità collettiva non sembrava più orientarsi verso un Aldilà, ma insistere sull’amarezza insormontabile dell’annientamento fisico.
Lou Arranca e Maurizio Martinelli