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Siamo in guerra, e la possiamo vincere solo con le armi della scienza e della responsabilità

"Restate a casa", ci hanno ripetuto anche gli altoparlanti dei vigili, qualche giorno fa. Ed oggi ancora. Stiamo a casa. Una casa un po' stravolta. Ma pur sempre casa. Dove ritrovare calore. Dove, nei momenti di sconforto, lasciarsi andare
DAL BLOG
Di Idil Boscia - 21 marzo 2020

Amo raccontare frammenti di vita e tutto ciò che lascia un segno

C'è un'immagine che più delle altre mi ha impressionata, in questi giorni. È quella con le bare. Tante. In fila. Portate dall'esercito. Tante. Lì dentro c'erano delle persone. Non dei numeri. "Non è un numero. Non è un nome e cognome. È mio papà". Così, a fine febbraio, la figlia della prima vittima del Coronavirus. In quelle bare, di vittime ce ne sono altre. Tante. Sono persone che i cari non hanno potuto piangere. Persone che, a quel che si racconta, potrebbero non essere nemmeno riuscite a sentire i propri familiari. Per un saluto. Un saluto che sarebbe stato l'ultimo. Straziante.

 

Gli auguri ai nostri papà anziani, quest'anno, li abbiamo fatti al telefono. O dal balcone. E niente fiera di San Giuseppe. E niente cene in famiglia. Sono cambiati i profumi. E le voci. Il ristorante vicino casa è chiuso. Il banchetto della verdura, chiuso. Quello del pollo, chiuso. Ma si sono aperti i balconi delle nostre case. Non solo con striscioni, canti o luci di una sera. Ma anche con chiacchierate da una casa all'altra. Bello. Di alcune persone non conoscevo neanche la voce. Ed ora ci si tiene un po' compagnia. Anche solo salutandosi con la mano. Nell'isolamento, ci sentiamo meno soli. Addirittura, in certi momenti, sembra di fare un tuffo al Sud in quei meravigliosi paesi dove tutti si conoscono. Si raccontano. Si tengono compagnia.

 

"Restate a casa", ci hanno ripetuto anche gli altoparlanti dei vigili, qualche giorno fa. Ed oggi ancora. Stiamo a casa. Una casa un po' stravolta. Ma pur sempre casa. Dove ritrovare calore. Dove, nei momenti di sconforto, lasciarsi andare. Senza disperazione. Ma appesantiti dalla fatica e dalla preoccupazione. Ancora maggiori, queste, se vengono a mancare persone a noi vicine. Per il Coronavirus. O a lato. Morti che non possono essere pianti. Che non possono essere salutati. E, di nuovo, l'immagine di quelle bare di Bergamo. Tante. Sembra una strada senza uscita. Non si trova la positività, a volte. E nello stravolgimento delle nostre vite, ecco che entra la dimensione del lutto. Umberto Galimberti lo saprebbe spiegare bene, il significato di lutto. Piccolo o grande. Per ciò che abbiamo perso. E ci fa sentire persi.

 

"Siamo in guerra", mi diceva, accorato, un signore ultraottantenne. Speriamo, allora, che finisca presto, questa guerra. Che possiamo vincerla presto. Con le armi della scienza e della responsabilità. Con gli occhi capaci di vedere il bello che abbiamo. Con i sorrisi. Con i saluti dal balcone.

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