Coronavirus e il ritorno a una ''vita normale'', ma cosa significa? L'isolamento ci porta a vivere in apnea
Amo raccontare frammenti di vita e tutto ciò che lascia un segno
C'è un gioco che mi piace molto. E' quello in cui si cerca di fare indovinare una canzone canticchiandone la melodia. O quello, sempre musicale, in cui ti fermi ad un certo punto di un brano e il tuo avversario deve trovare una canzone che contenga quella parola. E così via. L'altra sera io e mio figlio ci siamo cimentati con "vita".
Ed è stata la fine, perché non mi tolgo più dalla testa la canzone di Morandi e Dalla. Quella inizia con i versi "Vita in te ci credo".
Quante volte, in questi mesi, abbiamo sentito parlare del ritorno ad una vita "normale". Questo è un aggettivo che, nel contesto scolastico, mal sopporto. Cosa vorrà dire vestito normale? O comportamento normale? O giornata normale? Sono troppe le variabili. E troppe finestre si aprono su ciò che significhi normalità. Eppure, ad un certo punto, è scappato anche a me quell'aggettivo. Ritornare ad una vita normale. Che è come dire, ritornare a ciò a cui sono abituato. Che mi fa sentire sicuro.
Alcuni psicologi, tra cui Sorrentino e Morelli, si sono addirittura interrogati sul ritorno ad una vita "reale". Ma perché? Non è reale ciò che stiamo vivendo? Eccome, se lo è. Faticoso. Indesiderato. Doloroso. Ma reale, quello che stiamo vivendo lo è di certo. E' una vita diversa, forse confusa, ma di sicuro reale.
Una vita che non sarà più la stessa. Si dice. Speriamo. Speriamo che possa essere migliore. Che queste settimane ci aiutino a vedere il mondo con occhi diversi. A rivedere le nostre priorità. O confermarle, in alcuni casi. Anche se la storia ci insegna che ci sono i corsi ed i ricorsi. Sennò non ci sarebbe stata una seconda guerra mondiale, o non ci troveremmo a lottare per la difesa dell'ambiente, o per i diritti delle persone. Perché il dolore ci avrebbe resi migliori. Lo diranno le generazioni future se questa pandemia sarà stata capace di cambiare gli uomini.
Questa vita non si fa facilmente programmare, non ti aiuta a prendere quel tempo, che pure avresti, per fare ciò che ti piace. Che ti rende vitale. Una vita che vorresti stringere forte a te, ma che, ad un certo punto, può abbandonare chi ti sta vicino. Può andarsene. Senza chiedere il permesso. Una vita a cui ci si aggrappa anche a cent'anni. O che, per paura o per fretta, facciamo scorrere accanto a noi. Una vita, affannata, forse. Una vita da ricominciare. O da mordere.
Non riuscire a controllarla, questa vita, porta agitazione. Ansia. Desiderio di trovare una corazza che protegga i nostri figli dalla fragilità. Questa vita ci racconta l'imprevedibilità dei nostri giorni. L'agitazione di chi ha ricevuto la lettera dell'Azienda Sanitaria. E ha visto davanti a sé, nero su bianco, di essere tra le persone a rischio. Quelle di cui si sente parlare. Quelle che, sì sono morte, ma avevano patologie pregresse.
Questa quarantena ci porta a vivere in apnea. Ci fa andare avanti nel ricordo di ciò che è stato e nel desiderio di ciò che (di meglio) potrà essere. Un po' alla volta, ci sentiremo meno limitati. Inizieremo a muoverci. Ad interagire. A scegliere. Ritroveremo, insieme al risveglio della natura, anche la nostra vita. Quella vita che continua, anche se a volte un po' assopita. Di cui, magari, cerchiamo un senso. Come la famosa canzone di Vasco Rossi.