Ultima chiamata per l'Europa. La politica protezionistica di Trump ci responsabilizza ancora di più
Segretario politico del Patt e Senatore nella XVII legislatura
Come componente della delegazione parlamentare Nato, ho avuto il privilegio di partecipare alla cerimonia di insediamento di Donald Trump a Washington. Da sempre il discorso di insediamento di un presidente degli Stati Uniti è un richiamo all'orgoglio e all'unità del popolo americano, al ruolo di nazione-guida del cosiddetto mondo libero. Purtroppo, come è stato puntualmente riportato anche dalla stampa europea, così non è stato: abbiamo ascoltato un discorso dai toni cupi, parole senza quell'ottimismo della ragione che, nel bene e nel male, ci ha sempre fatto guardare con ammirazione all'America e ai suoi presidenti.
Siamo in una fase storica e politica senza precedenti, in cui è davvero difficile fare previsioni. Anche gli Stati Uniti, che sempre abbiamo pensato come una democrazia ricca di anticorpi, sono oggi attraversati da quel senso di rivolta verso tutto quello che viene percepito come establishment. È chiaro che le classi dirigenti occidentali non sono esenti da colpe, anzi, ne hanno di gravissime. La crisi prima e la sua gestione poi, con il costo tutto sulle spalle dei ceti medi e dell'economia reale, ci hanno restituito paesi attraversati da profonde diseguaglianze sociali e da crescenti sacche di povertà. E i dati sulla distribuzione della ricchezza, che in questi anni si è concentrata in maniera esponenziale verso una nicchia di pochi privilegiati, ne sono la principale riprova.
Tuttavia quel populismo, che ha trovato praterie per le colpe della politica e della finanza, non può far altro che rendere ancor più grave la situazione. Pochi presidenti hanno cominciato il loro mandato con manifestazioni di protesta così importanti, non solo a Washington (come quelle a cui ho personalmente assistito), ma in tante città degli Stati Uniti. Il populismo si basa e alimenta le divisioni, mette l'una contro l'altra le comunità e le persone, quando invece ci sarebbe bisogno di più cura, di più ascolto, di una rinnovata coesione sociale.
La radicata comunità dei trentini testimonia il profondo legame con l'America. Un legame che va al di là dei presidenti o dei colori politici dei rispettivi governi. Per questo dobbiamo confrontarci con il nuovo Presidente, prendendo quel che di buono c'è nelle sue prime dichiarazioni e provando a dialogare sul resto. Ad esempio, da un'eventuale distensione dei rapporti con la Russia, la nostra imprenditoria ne trarrebbe sicuro beneficio. Per il resto, in parte anche dipenderà dall'atteggiamento dell'Europa, chiamata a superare le timidezze e le divisioni, per apparire ancora un attore autorevole nel panorama mondiale.
È urgente farlo, in virtù di quella che si sta prospettando come la dottrina Trump nelle relazioni mondiali. Scarsa considerazione dell'UE e della NATO, tanto che nessuna delle due è stata menzionata nel suo discorso. Un'America che si muove da sola, con alleanze mutevoli in base all'interesse nazionale. Secondo autorevoli analisti internazionali, questa dottrina dell'America First implicherà relazioni e alleanze anche con quei regimi che non rispettano i diritti umani, purché queste siano funzionali al disegno americano. Certo, non è che fino ad ora gli Stati Uniti non abbiano mai stabilito accordi con certe nazioni o con abbiamo commesso anche gravi errori. Ma sarebbe la prima volta che quest'impegno verrebbe meno anche come semplice auspicio o principio. Con la conseguenza che l'Europa, già di per sé con non poche contraddizioni sul tema, resterebbe l'unica a "richiamare" la democrazia e il pieno riconoscimento dei diritti umani.
E allora per l'Europa non ci sarà un'altra chiamata. Come non ci sarà per quella politica che tratta con sufficienza gli elettori che guardano alle forze populiste. Non servono a nulla gli inviti e gli appelli alla responsabilità se, accanto, non si è in grado di offrire concretezza e vicinanza, considerazione e rispetto per le paure e i problemi che attraversano le nostre comunità. È una sfida che si vince lavorando pazientemente giorno dopo giorno, con umiltà e il massimo impegno possibile. Ma soprattutto non è una sfida tra partiti, ma quella, molto più importante, tra paura e speranza: quella di costruire un futuro forse meno ricco dal punto di vista economico, ma non per questo necessariamente peggiore.
Alle culture politiche democratiche e popolari, a chi crede in un'America che non può chiudersi nelle proprie paure, il compito di provarci. E l'Italia e l'Europa siano le prime a fare la propria parte.