"Vittoria" settant'anni d'arte che hanno fatto scuola
Giornalista, ha lavorato per Alto Adige, Gazzettino e Trentino
“L'arte scuote dall'anima la polvere accumulata nella vita di tutti i giorni”. Così parlò Pablo. Cioè, Picasso. Quanta polvere si sarà stata soffiata via dalle anime in settant’anni di storia di una scuola? Una scuola che a suo modo (un gran bel modo) ha fatto storia? Quanto stimolo ha portato il Vittoria ad una società spesso troppo disattenta al bello e al significativo? Beh, senza perdersi in calcoli incalcolabili, buttiamo lì un “tanto”, Anzi, un “tantissimo”. Un tanto, anzi un tantissimo, fatto certo di tecniche espressive. Cioè le discipline e le relative tecniche artistiche che sono utili a chi azzarda i saliscendi di una carriera creativa ma anche a chi, semplicemente, vuol regalare orizzonti più ampi alla propria esistenza e a quella altrui. Anzi, basterebbero orizzonti meno angusti.
Eccolo il Vittoria. Ecco la scuola (più precisamente quel che fu istituto e che oggi è liceo) che viene più logico chiamare comunità. Ecco il Vittoria nel momento, felice, in cui celebra, appunto, i suoi 70 anni di vita.
Una scuola, il Vittoria, nella quale non sempre ma spesso (e più che altrove) studenti e docenti coltivano oltre ai rispettivi ruoli (chi insegna e chi apprende) anche e l’attitudine rara alla reciproca contaminazione, al reciproco confronto. No, non è che le due “categorie” si confondano. E nemmeno è il caso di debordare sulle virtù. Ma certo è che quando la didattica ha a che fare con le arti gli intrecci sono “materia inderogabile”: più delle materie di studio. Diventano “essenza” (una matrice) lo scambio e il confronto tra chi è chiamato a fornire strumenti di conoscenza nelle varie discipline e chi con quegli strumenti deve familiarizzare. Mettendoci del suo. Scavando nel suo.
Eh sì, la vicinanza. Quella vicinanza che al Vittoria è una distintiva anche in una scuola da sempre martoriata in un’assurda frammentazione logistica delle sedi. Con tutti i conseguenti riflessi negativi che si porta appresso. Tuttavia se il Settantesimo è (e deve essere) festa si può soprassedere per un attimo all’inaccettabile longevità delle disattenzioni patite per decenni dal Vittoria. Va reso merito, semmai, alla resilienza di una scuola che ha saputo imporsi “nonostante”.
La festa del Vittoria sarà celebrata nell’unico modo possibile per una fucina di creatività che ha fatto, fa e di sicuro farà ancora bene al Trentino. Il modo? Mettersi in mostra con tutto il legittimo orgoglio di una lunga storia. Un orgoglio a colori. Un orgoglio di forme. Un orgoglio di passato, presente e futuro che nell’arte non possono vivere gradi di separazione. La festa, la mostra, inizierà venerdì l’8 novembre (alle 17.30) a Palazzo Trentini, con l’inaugurazione di un riassunto/racconto del Vittoria. Un riassunto impostato sulle immagini, su momenti di ieri e sui momenti di oggi di una scuola che avrebbe diritto ad un domani (ma non ad un evanescente dopodomani) di minori complicanze.
Le immagini/testimonianza non significano nostalgia ma consapevolezza. La consapevolezza di aver fatto e di voler continuare a fare non solo e non tanto nel campo artistico quanto in quello più ampiamente, orizzontalmente, culturale. E sociale. E civile.
In quel campo, cioè, nel quale si incontrano scuola e territorio attraverso il bello, l’utile e, perché no, anche il dilettevole. Tutto ciò che possono produrre pittura, scultura, fotografia, video, design, arredamento e molto altro. Tutto ciò che anima il Vittoria.
Quando la creatività che si coltiva (maturandola nello studio) dentro una classe ha, infatti, la possibilità di modellare contesti urbani, ospedali, case di riposo, sedi commerciali, alberghi e quant’altro, beh la scuola “fa bingo”. Perché? Perché serve, anzi è servizio. E la società pure fa bingo: guadagna bellezza. Le "incursioni "artistiche fuori dalla scuola al Vittoria sono state negli anni innumerevoli.
Per costruire la mostra-racconto dei 70 anni del Vittoria, con il titolo-gioco è “Vittoria, Settant’arte 70”, si sono spesi (idee, ricerche d’archivio, allestimenti) quelli che si potrebbero chiamare (ma con riconoscenza) “docenti da soma”. Un gruppo “storico” (nemmeno troppo folto, però: le generazioni cambiano e con loro cambia la passione) di quegli insegnanti/artisti che dentro il Vittoria hanno sempre, caparbiamente, cercato di fare squadra. Fare squadra tra loro e, di più, fare squadra con i loro studenti. I “docenti da soma” sono quelli che al Vittoria hanno provato a costruire tanti cantieri: artistici e, soprattutto, umani. Cantieri fisici e cantieri ideali: cantieri valoriali. Cantieri multidisciplinari, sinergici, senza troppi compartimenti stagni: hanno lasciato segni dentro e fuori la scuola.
Una mostra racconto non può evitarsi la storia. Ma la storia del Vittoria è lunga e ricca di protagonisti e progetti (non conta se importanti o no). E’ una storia di scommesse e sperimentazioni ambiziose, di sogni realizzati ma anche di sogni infranti (dalla burocrazia e dalla troppa pochezza politica). E’ impossibile riassumerne il percorso. Anche per sommi capi. Questa storia intensa la mostra a palazzo Trentini (sarà aperta fino al 7 dicembre) non la ridurrà a didascalie. Non elencherà tappe se non per accenni alle trasformazioni che in 70 anni non sono certo mancate.
No, la scelta – una scelta felice e conoscendo il cuore chi ha lavorato all’esposizione anche l’unica possibile - è stata quella di ricostruire 70 anni di Vittoria attraverso l’arte che il Vittoria ha saputo produrre. Attraverso, cioè, i lavori più significativi e caratterizzanti di studenti ed insegnanti, concentrandosi sul periodo che va dagli anni 80 ad oggi.
Impresa facile? Facile una cippa. C’era da mangiare polvere vera (altro che quella dell’anima) rovistando negli archivi e nel materiale poco nobilitato, forse dimenticato ma per fortuna presente nei magazzini. C’era da “scegliere” (cosa mai facile) in un universo decisamente creAttivo.
Un universo dove i lavori non devono essere necessariamente capolavori ma hanno comunque la funzione di testimoniare la virtù di un rapporto intenso tra le tecniche artistiche e i sentimenti che possono (devono) provocare.
Nel progettare la mostra/festa del settantesimo c’era da far capire cosa il Vittoria è stato, cosa è e cosa vorrebbe continuare ad essere. Come? Attraverso “momenti” che non sono mai stati solo artistici. Non a caso i volti dei ragazzi e delle ragazze che si impegnano in un laboratorio o su un ponteggio (accanto ai loro professori) danno l’idea di un’identità caratterizzante. Più di mille parole.
Ecco allora le opere di ex studenti diventati più o meno famosi campando d’arte. Ed ecco i lavori di ex studenti che magari hanno fatto altro (vissi d’arte? Mica sempre) ma che hanno saputo comunque dire e fare. Hanno detto e hanno fatto con in mano un pennello, uno scalpello, una pialla, una macchina fotografica, un computer grafico, una bomboletta per far parlare i muri o un saldatore per trasformare i metalli in ninnoli, collane, orecchini.
“Una Grande famiglia di figure generative avvicinatesi al mondo delle arti (o giunte ad una superiore maturazione artistica) proprio durante la loro permanenza al Vittoria”: così recita il breve prologo che introduce una galleria di quadri, installazioni, elementi di arredo e design, gioielli, sculture, progetti, testimonianze di indimenticabili esperienze all’estero, ambienti rivisitati, colorati, umanizzati o semplicemente sognanti.
Attraverso le arti, antiche o moderne, si è costruita l’arte di trasformare in esteriore, pubblico, tutto quello che è interiore. Con un’ambizione nobile: trasformare una scuola di laboratori in un comune laboratorio di comunicazione. Una comunicazione valoriale con le tecniche artistiche che diventano uno strumento, un linguaggio, per esaltare tutti i generi di diversità.
Viva, dunque, la festa di un Vittoria partorito nel paleontologico 1953 dalla caparbietà di Bruno Colorio e cresciuto con l’impegno di tante generazioni di docenti e studenti fino a diventare, oggi, una delle scuole più attrattive della provincia per numero di iscritti.
Viva la festa allora, specie se dopo il rito allegro dell’inaugurazione saranno in tanti a visitare una mostra che per molti sarà come sfogliare un album di famiglia tra ricordo ed emozione. Viva la festa del Vittoria se tutto quel bel vedere multidisciplinare servirà a togliere un po’ del prosciutto dagli occhi di chi, amministrando il Trentino, al Vittoria avrebbe potuto facilitare il compito. Il compito, cioè, di utilizzare le arti come motore di sviluppo culturale e sociale.
Ci si era qui proposti di brindare (con le parole) al compleanno. Tuttavia, pensando al credito che il Vittoria vanta nei confronti dell’ente pubblico provinciale, c’è il rischio che anche il rosolio abbia il sapore di quell’amarissimo che in questo caso non fa benissimo. Rischia infatti di primeggiare, il Vittoria, nel campo delle sconfitte di cui non ha alcuna colpa. La sconfitta logistica prima di tutto. Il Vittoria s’arrabatta in una sede “provvisoria” dal 1986, collocata dentro un magazzino (l’ex Grundig) riadattato più e più volte alla bisogna di una crescita galvanizzante d’utenza ma più di tutto ad una crescita di scommesse artistiche e sociali. Sfide vinte “nonostante”.
Ma poi la sconfitta di dover affrontare (si fa per dire) i problemi di spazio con disagevoli (oltre che costose) soluzioni tampone: una, due, tre succursali che penalizzano il lavoro e minano la caratteristica identitaria del Vittoria.
E ancora, la sconfitta delle promesse che hanno reso il naso di Pinocchio più lungo del futuro e disastroso ponte sullo Stretto. Le promesse di una nuova, funzionale, sede della quale mai s’è visto un mattone (che se per altro dovesse nascere secondo i progetti di ormai dieci anni fa, nascerà vecchia. Beffardamente vecchia).
La mostra di compleanno, la storia di una “presenza” che va oltre il merito impagabile dell’istruzione artistica, sarà oggettivamente un’occasione per evidenziare anche lo stridore. Il fastidioso stridore tra i prevedibili complimenti istituzionali e i fatti. Anzi il “non fatto” per il Vittoria.
Sarà illusorio ma se chi amministra si ricordasse di Troisi non sarebbe male. Più che un “bene bravi” di presidenti, assessori eccetera ci starebbe un “scusate il ritardo”. Almeno un “scusate il ritardo”.