Un'orchestra di sentimenti per attore solista: suona davvero bene il Novecento di Mario Cagol
Giornalista, ha lavorato per Alto Adige, Gazzettino e Trentino
A volte capita anche ai comici. Capita che si facciano seri, anzi serissimi. Capita che abbandonino la loro zona di conforto (Confort Zone è uno degli inglesismi di moda, troppo di moda, che però qui non attizza) della battuta facile che provoca risate altrettanto scontate. Non succede con frequenza ma se succede la scommessa vale doppio. Mostra un altro volto. Spiazza e stupisce (in positivo).
Divertire non è facile perché senza anima la comicità fa rima con aridità e purtroppo di intrattenitori dalla vena rinsecchita, furbetta e ripetitiva ce ne sono in giro troppi. Ma se è un duro lavoro anche il far ridere, derogare all’ilarità per tuffarsi altrove con la voce, il corpo e, appunto, l’anima è una scalata di massimo grado.
Non è dato sapere se Mario Cagol arrampichi e quali vette riesca a raggiungere zaino in spalla. Da un paio di giorni – i giorni dopo il debutto con replica (entrambi sold out) del suo “Novecento” al teatro di Villazzano, si può indubitabilmente dire che le salite artistiche non lo spaventano. Non sono, insomma, ardite.
Monologante ma non solo con la voce, Mario Cagol si è misurato con Alessandro Baricco e con una delle sue scritture più riuscite, fascinose ed ostiche. Una storia cinematografica, una storia per immagini ma tutta da immaginare (o che non limita l’immaginazione), motrice di diverse interpretazioni, anche prima che l’Oscar Tornatore la affidasse a Tim Roth (La leggenda del pianista nell’Oceano). Tornatore che cambiò il titolo a Baricco ma ne esaltò l’essenza. L’essenza intrigante di un racconto che sta sì tutto dentro una barca (anzi, una nave, il Virginian) ma che non imbarca mai acqua per come e per quanto la navigazione (letteraria) è segnata da un alto tasso di sentimento. Scena in ombra ma piena di luci.
Mario Cagol non s’è scomposto di fronte ad un testo che richiede un surplus di immedesimazione per rendere al meglio i pochi personaggi ma le tante, tantissime, sfaccettature, l’alta dose di interiorità ma anche di messaggio, che si portano appresso. Ed ecco allora Cagol assumere (ma l’abito non c’entra, è sempre quello) le sembianze di Tim Tooney, il trombettista/narratore e quelle sfuocate ma nitidissime di Danny Boodman Td Lemon Novecento, l’uomo chiamato tastiera, il pianista tentacolare e inarrivabile nato, vissuto e infine “volutamente” morto su un piroscafo-mondo. Il suo mondo, la nave e i suoi concerti, fatto di sicurezza aliena, dal rifiuto dalle insicurezze (ma anche delle gioie, ovviamente) del mondo “di fuori”, quello che sta sulla terra ferma.
Quasi impossibile non farsi “prendere” dalla storia tanto semplice quanto incredibile di Novecento. Possibile, anzi perfino facile, apprezzare ancora di più la storia nella versione teatrale che Cagol ha reso credibile (e godibile) scegliendo di non strafare, di non eccedere nel colore dei personaggi, provando (e riuscendo) a trasmettere la forza del protagonista recitandolo con una rispettosa e certamente ammirata normalità.
Ne esce uno spettacolo da vivere tutto d’un fiato sul quale meditare soprattutto dopo lo spettacolo. Meditare sul fatto che la vita è immensa – come l’Oceano – complicata al punto che si può perfino scegliere di non viverla, di rassegnarsi a concentrarla tutta nell’emozione di due mani che ricamano su una tastiera. Per tutta la vita. Spettacolo colloquiale, anche se non c’è colloquio, quello in cui s’è buttato Cagol. Testo perfetto per il teatro ma infido come tutti i testi che sembrano adatti al teatro ma che se non ci metti del tuo rischiano di affondare nella banalità.
Il “metterci del tuo” di Cagol è certamente l’emozione, la commozione che cresce durante il monologo ed esplode (come la nave di Novecento) quando gli applausi (meritati) arrivano a scroscio. Il metterci dell’altro in aiuto all’interpretazione di Mario Cagol rimanda alla regia essenziale di Mirko Corradini. Regia apparentemente semplice nella scena spoglia e nelle luci che hanno decine di tagli ma che sembrano una sola: fissa sull’anima del racconto. Regia però dal guizzo importante quando il fascio giallo illumina le sole mani di Cagol che si muovono in sintonia con quelle del pianista che in ombra, in sagoma, regala dal vivo allo spettacolo la magia delle note di Morricone.
Qualità alta quella di Michael Strom, ma qualità sussurrata, senza eccessi di virtuosismo, così come atmosfera comanda. L’atmosfera confidenziale del Novecento firmato Cagol/Corradini e dei bravi tecnici alla bisogna. Ci si fa l’idea che il progetto sia stato molto di più di un buon progetto di spettacolo teatrale. Si intuisce che la principale domanda lasciata inevasa da Novecento, cioè se sia lecito sfuggire alla vita per non viverla in modo gramo, sia stata per attore e regista una lunga e intensa occasione di autocoscienza.
Mario Cagol non è nuovo – e per fortuna – alle parentesi. Non abdica, e fa bene, a Nonna Nunzia e al suo dialettando gigione ma spesso sferzante. Ma dopo il dramma del Cermis e la Nevicata storica di Trento, questa sua crociera solitaria in un Oceano di umanità alza l’asticella. Il salto riesce. Lo spettacolo, prodotto da Teatro E a Villazzano, girerà il Trentino. Siateci.