Pergine Festival: suona bene il dialogo tra arti, spazi e comunità
Giornalista, ha lavorato per Alto Adige, Gazzettino e Trentino
Saranno i luoghi, saranno gli spazi “impropri” scelti per ospitare alcuni pezzi (nella fattispecie pezzi rari) di Pergine Festival. Sarà, di più, una visione della cultura che prova ad evitare agli angoli ottusi della sperimentazione ad ogni costo (troppo spesso ad escludendum) e che cerca, invece, un equilibrio tra ricerca, innovazione, provocazione espressiva e una “popolarità” della proposta che non abdichi né alla qualità né all’impegno.
Eccolo il dosaggio che si conviene ad un festival trentino (ma non solo per il Trentino) dalla storia più che longeva. Un festival estivo partito un botto d’anni fa come Spettacolo Aperto (pionierismo dentro il deserto delle iniziative) e poi ampiamente mutato. Tanto che la rincorsa probabilmente esagerata all’inconsueto artistico ha relegato un nobile passato alla naftalina. Risultato: calo di partecipazione ma aumento di una rischiosa autoreferenza. Può accadere quando – con i soldi pubblici - si considera il pubblico una variabile trascurabile.
Saranno questo e tanti altri motivi che a Pergine non devono essere stati vissuti come quisquiglie ma quel che oggi si registra è un respiro ossigenato che dà pieno merito alle scelte di Babilonia Teatro, vale a dire la nuova direzione artistica di Pergine Festival.
Scelte che sono tante, varie e fitte: un calendario giornaliero senza sosta, che sta per concludersi. Scelte intriganti tanto per i contenuti quanto per i modi di proposte che sono tornate ad essere meno aliene rispetto alla comunità che le ospita.
Il cartellone di Pergine Festival – un calendario senza tregua - ha “occupato” la cittadina quasi per intero. Soprattutto, ha tenuto occupate (nelle collaborazioni, i progetti e gli appuntamenti) tutte le realtà più vitali della comunità.
Nel fresco dei ricordi a random emergono alcuni momenti che restano impressi tanto per la logistica affascinante quanto per le emozioni che hanno saputo risvegliare. Un esempio sono i mini spettacoli allestiti nell’ex Rimessa Carrozze, un deposito in pieno centro riadattato nel periodo del festival a teatro. Un teatro dai bassi numeri (massimo 90 persone) ma dagli alti contenuti di sorpresa. Tra quegli spettacoli ce n’è stato uno dal titolo che non lasciava alcuna via di fuga alla curiosità: “Concerto fetido su quattro zampe”, di e con Alice e Davide Sinigaglia. Un duo che è parso un tutt’uno per sintonia e genuinità. Se la gioventù fosse tutta bruciata così sarebbe da chiedere subito di farsi scottare. Bravi, anzi bravissimi, i Sinigaglia. Ad agio (ma non adagio vista la frenesia, seppur controllata abilmente) nel tenere una scena in altalena continua tra parlato, cantato, suonato e “gestualizzato” (che come vocabolo non esiste ma rende l’idea). Bravi, i ragazzi, nel raccontarsi come animali/umani di periferia (nella fattispecie cani). “Chi siamo quando siamo nudi come bestie di fronte alle bestie che siano?”; la filosofia del Fetido è qui, ma anzi no. Ci si stupisce alquanto e per troppa parte dello spettacolo (compreso quello sperimentale) oggi stupirsi è vincere alla lotteria.
Stupirsi dalla sintonia. Stupirsi del crescendo di un testo in cui l’ironia amara supera agilmente il diapason senza però indugiare nella retorica e nel già sentito (e del già denunciato rispetto ad un mondo di rapporti in via di rapida decomposizione). Stupirsi dal matrimonio tra la filosofia (roba seria) e un rap di scarse speranze: i due sorprendenti mattAttori lo celebrano mettendoci l’anima, la presenza scenica e più di tutto un vocabolario che incanta disincantando: “Buongiorno a tutti. Parliamo alla nazione in cui si ride per De Sica e i rutti. Cambiare stato ma è stato strano. Va tutto molto meglio se non alzo più la mano”. Stupirsi, infine, da uno spazio (l’ex Rimessa che finito il festival tornerà garage) che si fa confidenziale non appena ti siedi sui cuscini sugli scalini di legno con il palcoscenico a tiro di fiato. Confidenza tra il pubblico. Confidenza tra pubblico e attori che ci mettono un amen a confondersi: è il teatro a tu per tu.
Ma in fatto di spazi Pergine Festival perfino esagera. Ci si alza di qualche centinaio di metri, ci si attrezza alla salita (ma c’è pure la navetta) e ci si ritrova sotto un castello diventato patrimonio pubblico grazie ad una Fondazione popolare che fa il salto triplo per gestirlo. Un castello è bello non solo per la storia e l’architettura ma più di tutto per la rara suggestione garantita lassù dell’arte e dallo spettacolo. Ecco, la storia si trasforma: in meglio.
Se poi nella storia dell’ultimo Pergine Festival il castello (il suo prato gran prato in discesa) diventa l’ambientazione fascinosa per un duo che sa farsi orchestra come i “La rappresentante di lista” anche un semplice reading con abbozzo di canzoni ha il gusto forte dell’evento. Che non si dimentica.
“La Rappresentante di lista” è fuor di dubbio quanto di meglio (e di sano) il nuovo cantautorato italico può offrire. Un unicum a scavalco tra musica e letteratura contemporanea che spicca e conforta in un coacervo di rime bislacche, di espedienti furbamente scurrili e di quant’altro invade un mercato che mastica e rimastica l’assenza di creatività e di intensità (basta pensare alla scena trap).
Con Veronica Lucchesi e Dario Mangiaracina si viaggia invece verso un altro, benedetto, pianeta: il pianeta, ormai lontanissimo, della serietà, della “presa di posizione” senza infingimenti e delle buone idee artistiche. Il pianeta dove non si imita ma si crea davvero uno stile fatto di una voce incredibilmente duttile, di un suono a tratti visionario e di testi non sempre immediati ma che hanno sbarrato la porta ad ogni tentazione di banalità.
Sotto il castello, a Pergine Festival, nessun concerto: solo parole, spizzichi e bocconi inediti del nuovo disco in uscita. E poi qualche canzone che anche se datata pare miracolosamente sempre nuova. Una chicca che resterà negli annali di Pergine Festival.
Se poi il festival alterna l’inconsueto e l’irrituale artistico delle contaminazioni all’ampiamente sperimentato, al “rodato di classe”, non è che inneschi la retromarcia. Le ospitate di Lella Costa e di Gioele Dix in un teatro dove per tutto l’anno si respira Aria culturalmente buona non sono state certo la virata del Festival sull’usato artistico sicuro. La sora Lella (che è lombarda ma il soprannome ci sta) si è calata nei panni della proto femminista Giovanna D’Arco per raccontare le donne negate e violate dell’oggi. Mastro Gioele si è praticamente reincarnato in un Giorgio Gaber a tratti inedito: lo ha fatto come solo un “devoto” può fare. Lo ha fatto invidiando con amore una lungimiranza lucida e inarrivabile. Ebbene, Costa e Dix hanno dimostrato come l’innovazione, il sapersi mostrare ogni volta diversi, non sia una prerogativa anagrafica.
Ecco, questa alternanza virtuosa tra “emersi” ed “emergenti” nel campo dello spettacolo è una delle caratteristiche che più convincono nel nuovo corso inaugurato due anni fa da Pergine Festival. Così come lo è l’accentuazione dei rapporti tra Festival e comunità perginese che non si nota solo nella frotta di volontari (che ci sono sempre stati) ma anche nel coinvolgimento pieno di anziani (case di riposo), bambini (laboratori) e adulti. Oltre che in un ritorno indubitabile del pubblico.
Ma poi forse non è nemmeno una questione di numeri, anche se in una manifestazione finanziata non poco dalla Provincia dei numeri non ci si può disinteressare. Certamente è, invece, una questione di volti su quali si legge una soddisfazione che intreccia finalmente tutte le età. A Babilonia (teatro) si parlano tante lingue ma stavolta si capisce: se non tutto, di sicuro molto. Si intuisce che il Festival è dialogo: quello tra le arti (prosa, danza, musica, immagine) e quello con chi abita Pergine e torna a sentire “sua” la manifestazione. “Senti come suona” recita lo slogan dell’edizione 2024. Se ci fosse un punto di domanda la risposta appare facile: “suona bene”.