Olimpiadi, la ricreazione è finita: dalle giornate del tutto, si torna ai pomeriggi del nulla. E abbiamo già nostalgia
Giornalista, ha lavorato per Alto Adige, Gazzettino e Trentino
E adesso? Adesso torniamo – che calvario - ai pomeriggi roventi e pieni di nulla: il nulla televisivo. E “chiusa parentesi”. Torniamo dunque a sorbirci i programmi (Rai, Mediaset e gli altri: nessuna differenza) che godono nel rimestare dentro i fattacci della cronaca. Se non c’è abbastanza torbido, non abbastanza miseria, non c’è gusto. Al contrario, quando i programmi cambiano registro e virano dal giallo al rosa quotidiano, gli studi si riempiono di comari e di compari starnazzanti. Gente che lontano dalla telecamera non è nessuno: filosofi del tacco a spillo, dei seni e delle labbra pompate, delle separazioni e delle ricomposizioni che riguardano generalmente mezze tacche. Note per aver calpestato un’Isola fingendo amori e crisi di nervi dietro lauto compenso.
Di qui in poi, dalla scorsa domenica in poi, saranno di nuovo pomeriggi televisivamente grami. Che introdurranno sere ancora più magre. Le sere replicanti, laddove il film o lo sceneggiato più recente risale all’epoca dell’Istituto Luce. Programmazione naftalina propinata come se fosse nuova.
D’altra parte le Olimpiadi non possono essere eterne. Non possono durare per tutto l’anno e tutti gli anni. La ricreazione è finita. Ma che peccato.
Però non ci si scappa. Appena spenta la fiamma che ha illuminato Parigi dalla mattina presto a notte fonda, si è già in balia della nostalgia. La nostalgia delle medaglie? Quella dei primati? O magari quella delle polemiche che più stupide, più becere, più anacronistiche davvero non si può? (altro che testosterone, il tema è quello dei neuroni sfuggiti a troppi fancazzisti della politica).
No, la nostalgia che è già canaglia (Albano, ci perdonerà del furto) è quella che si prova per una curiosa pratica, per una diffusa pratica, legata ai Giochi Olimpici. La pratica del “va bene tutto” e del “si guarda tutto”. Ma proprio tutto. Se non fosse per via di una serietà ed una riconoscenza che prima e soprattutto dopo il Covid va riconosciuta alla scienza, si potrebbe parlare di virus. Un virus felice però. Un virus dalla sintomatologia ormai nota: ci si piazza sul divano, ci si attrezza al rifocillamento se serve, e si diventa inesorabilmente appassionati di tutto ciò che le Olimpiadi passano.
Tutto, si guarda tutto, da mane a sera. E cioè si diventa aficionados del tiro al piattello che per vederlo devi essere un falco. Si adorano perfino gli spari di pistola e di carabina senza vedere il centro. Si va in deliquio per le mosse in kimono delle quali non si capisce una cicca fino a quando un giudice non alza la mano di un vincitore che poi fa l’inchino all’avversario. Oppure si è elettrizzati dalle infinite strambate di un navigare (a vela) che televisivamente ha i ritmi di una traversata oceanica in pedalò. È il pathos della noia.
Ancora, si tifa singolarmente o in gruppo (“dentro”, in silenzio, o “fuori”, pontificando) anche per le signorine “tappo sul naso” (belle ma inevitabilmente ridicole, ma guai se non ci fosse il tappo). Sono sirenette dalla testa in giù dalle gambe in su: un geometrico turbinio di piedi e di spuzzi. Anzi no, pare vinca chi spruzza meno: però a tempo.
Ci si esalta anche per i tubolari, senza capirci un tubo. Alzi la mano, se ha coraggio, chi s’è raccapezzato nella “Madison”: un gruppone di ciclisti/e senza freni, la follia in pista, che avranno pure una testa ed una coda ma nessuno sa dov’è fino a quando un cronista (anche lui probabilmente ignaro ma senza darlo a vedere) urla che tizio a vinto e caio ha perso.
E che dire del volano? Che adesso si chiama badminton ma che non manda a servizio né Sinner né Djokovic Però ci si è inchiodati al risultato come se a contenderselo fossero proprio l’altoatesino pel di carota e il serbo “burbero” ma – si racconta – anche benefico. Sì, il badminton. Sì, il volano. Passate le Olimpiadi non lo si vorrà più vedere nemmeno nelle cartoline ottocentesche inglesi.
Ma alle Olimpiadi sì. Le Olimpiadi fanno il miracolo (pare che anche le Madonne di Lourdes e di Fatima si arrendano) di nobilitare anche il più povero in canna degli sport. Rendono il golf appassionante quanto la finale di Champion. Diventano “miticamente popolari” discipline che se venissero proposte fuori dai cinque cerchi si chiamerebbe la neuro o, peggio, ci si rivolgerebbe al Codacons. Che certo una stupida denuncia per truffa sportiva ai danni di ci paga il canone la preparerebbe di sicuro.
E allora, davvero, benedetta Olimpia, la dea che qui si ribattezza come paladina dell’inconsueto e dell’irrituale. Di botto tutti si scaldano per un Ashi guruma (lo sgambetto) e battono le mani forsennatamente per uno Jugi Gatame, il kamasutra che fa vincere gli incontri senza aver mai capito la differenza tra uno judoka in carne ed ossa ed un cartone animato giapponese.
Di colpo tutti fremono con una foga che riduce a mammolette gli hooligans del calcio quando un canoista si butta nelle rapide e nemmeno il più semplici dei manuali riuscirebbe a spiegare come si fa a non saltare una porta aerea e a far punti fregando un mulinello che pare il Niagara. Chi vince, allora, nelle Olimpiadi? Beh, gli atleti: che scoperta. Che se sono italiani, (anche a colori, soprattutto a colori) è meglio. Ma se provassimo a dire che chi vince davvero è proprio l’Olimpiade? Alle Olimpiadi (e solo alle Olimpiadi nonostante ogni disciplina, anche la più bislacca abbia i suoi campionati, fino ai Mondiali) lo spettatore (non pagante, casalingo) finisce col mettere sullo stesso piano i muscoli scolpiti dei finalisti/e dei cento metri e le panze gioiose dei pesisti/e. Un miracolo, appunto. È un po’ come mettere sullo stesso piano New York e Bukavu (in Congo, la città più povera del mondo).
Ovviamente se il tricolore va sul podio la festa è doppia, anzi tripla. Ma se come capita si parteggia anche per un georgiano che alza duecento e più chili e ciononostante non gli scoppia il torace, beh vuol dire che le Olimpiadi (lo sport olimpico che è “altro” dallo sport non olimpico) annullano davvero ogni confine: geografico, sociale, culturale. Buttandola in politica spiccia si potrebbe azzardare che le Olimpiadi sono davvero un inno alla democrazia, all’inclusione (degli sport senza una lira), della solidarietà (gli applausi veri agli ultimi, forti a volte quanto quelli per i primi).
Ma qui non si azzardano scemenze perché si sa – purtroppo – che finiti i Giochi tutto (e troppo) torna a/normale: una decina di sport si prendono tutta la scena e tutta la cassa. Gli altri annaspano: spesso in un sudore che lascia il portafoglio a piangere con le medaglie d’oro che potrebbero finire anche al banco dei pegni.
Ma niente se e niente ma. L’Olimpiade profuma di rivincita: per chi la fa venendo da pulviscolo del mondo ma anche per chi la guarda. Vabbè il calcio sulle piattaforme che ti salassano ma vuoi mettere il nuoto nella melma e per di più a gratis?
Di fronte all’inedito di chi si guarda ammirato in tv anche quella break dance che se te gliela fanno i ragazzi sotto casa li prenderebbe a secchiate viene da ripetersi un concetto confortante. E cioè che nell’Olimpiade può vincere anche lo sport più difficile. Anzi una disciplina rara: l’apertura mentale. Di più, la disponibilità a scoprire (e perfino tifare) ciò che non si conosce.
E allora che si esageri. Ci vorrebbe un’Olimpiade quotidiana per tifare tutti assieme per chi, negli angoli più sperduti e poveri del pianeta fin dentro le metropoli, la disciplina della giustizia, dei diritti, dell’eguaglianza e dell’equità. Ma questa è un’altra storia. Che però farebbe storia.