Il diavolo parla alla pancia. Ma da dove viene il male? Cerchiamo una risposta alla domanda teodicea di Leibniz
Laureato in Filosofia e in Scienze Religiose. Insegno Pluralismo e dialogo fra le religioni,
“Non di solo pane vivrà l'uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”
Nel tempo di Quaresima, le letture di questa domenica convergono sul tema delle tentazioni per illustrare la storia della salvezza. Dal punto di vista filosofico, le tentazioni in quanto tali, aprono uno squarcio su un nodo radicale per la ragione, introducono cioè alla domanda fondamentale sul male: se Dio, in quanto creatore di tutte le cose, è infinitamente buono ed onnipotente, da dove viene il male? In termini appropriati questa domanda viene chiamata “teodicea”, un termine utilizzato per la prima volta agli inizi del 1700 da un filosofo di nome Leibniz. Letteralmente essa significa “giustizia di Dio”, e studia appunto il rapporto fra la giustizia divina e la presenza del male nel creato.
Le tentazioni, dicevamo, aprono la via alla comprensione della giustizia di Dio. In termini stretti, infatti, come si può giustificare il male terreno? Come si può giustificare un Dio onnipotente che, se così si può dire, lascia che il male liberamente tenti – si pensi, qui, alla vicenda narrata nel libro di Giobbe, dove Dio lascia che il male di fatto distrugga la vita di un giusto, per arrivare al paradosso estremo del sacrificio di Isacco dove è Dio stesso a chiedere ad Abramo di offrire in sacrificio suo figlio – le sue creature? Prima di abbozzare una risposta, leggiamo il Vangelo di questa domenica di Quaresima: Mt 4,1-11
In quel tempo Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo. 2 Dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame. 3 Il tentatore gli si avvicinò e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, di' che queste pietre diventino pane». 4 Ma egli rispose: «Sta scritto: Non di solo pane vivrà l'uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio». 5 Allora il diavolo lo portò nella città santa, lo pose sul punto più alto del tempio 6 e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, gèttati giù; sta scritto infatti: Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo ed essi ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra». 7 Gesù gli rispose: «Sta scritto anche: Non metterai alla prova il Signore Dio tuo». 8 Di nuovo il diavolo lo portò sopra un monte altissimo e gli mostrò tutti i regni del mondo e la loro gloria 9 e gli disse: «Tutte queste cose io ti darò se, gettandoti ai miei piedi, mi adorerai». 10 Allora Gesù gli rispose: «Vattene, Satana! Sta scritto infatti: Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto». 11 Allora il diavolo lo lasciò, ed ecco, degli angeli gli si avvicinarono e lo servivano.
La lettura veterotestamentaria di questa domenica è tratta dal libro di Genesi (2,7-9; 3,1-7), la narrazione della tentazione operata dal serpente nel giardino di Eden. A prescindere dalle interpretazioni che nel passato hanno visto una strumentalizzazione in chiave misogina di tale racconto, esso è particolarmente importante per provare ad abbozzare una risposta alla domanda: da dove viene il male? In entrambi i racconti, infatti, il male in quanto tale è personificato nella figura di un tentatore (serpente, Satana, ecv.), il quale non ha altra arma se non il cosiddetto “indurre”. In altre parole il male, anche se presente, personificato e quasi tangibile, non ha nessun potere sulla nostra capacità di scegliere, distinguere, valutare. Il male non ha nessun potere sulla nostra libertà, se non appunto quello di “indurre in tentazione”.
Soprattutto il XX secolo, con la Shoah come paradigma della presenza del male nel mondo, ha mostrato che questo male, più che essere un assoluto che si contrappone “faccia a faccia” con Dio in una lotta perenne, è – per dirla con la Arendt – banale. Il male si presenta come una tentazione sempre presente: non è un caso che anche la scrittura evangelica faccia leva sugli istinti primordiali – per usare un termine contemporaneo, il diavolo parla alla pancia - «Se tu sei Figlio di Dio, dì che queste pietre diventino pane» (Mt 4,3). Focalizzandosi poi sulla brama di potere (volontà di potenza) «Se tu sei Figlio di Dio, gèttati giù; sta scritto infatti: Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo ed essi ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra»(Mt 4,5), per concludere con la brama di possedere: «Tutte queste cose io ti darò se, gettandoti ai miei piedi, mi adorerai» (Mt 4,8). La riflessione che accompagna questa prima domenica di Quaresima potrebbe essere ben volta alla rinuncia come dimensione fondante dell'essere uomo, poiché «non di solo pane vivrà l'uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio» (Mt 4,4).
E, parallelamente in quanto «immagine», anche di Dio in quanto Dio, il quale pur “rinuncia” ad intervenire nel libero arbitrio di cui la creatura-uomo è dotata. Perché, infatti, la rinuncia deve essere vista in una accezione puramente negativa? Non potrebbe rappresentare un modo per consolidare in modo autentico la libertà stessa? La libertà, di e in coscienza, di imparare l'astensione positiva, trasparente. Un momento “santo” - per utilizzare un linguaggio poco secolarizzato – espresso sotto varie forme (si pensi alla tradizione del digiuno, trasversale a molte religioni). In fondo, chiedersi se sia Dio la “causa” del male e chiedersi il perché non intervenga per sconfiggerlo, sembra ancora un alibi del tutto umano per giustificare la nostra incapacità di gestire una libertà tanto radicale quanto fragile. Una libertà che, in coscienza, richiede solamente la responsabilità di dire «eccomi!» dinanzi all'altro.