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Le magnifiche 7 della Valle dei Laghi che rendono ''Santo'' il vino: storia di una tradizione cominciata sulle rotte mercantili dell’Adriatico

DAL BLOG
Di Ades, by Nereo Pederzolli - 24 marzo 2023

Cercherò di stuzzicare curiosità e piacevolezze. Lasciando sempre spazio nel bicchiere alla fantasia

Sull’origine del nome, sul perché si chiama così e sul suo significato intrinseco s’è scritto, discusso e fantasticato a lungo. Lo sarà ancora. Inesorabilmente. Perché pochi altri vini possono vantare nel nome una parola che evoca sogni, rilancia momenti di piacevolezza, soddisfa il presente recuperando il passato e – contemporaneamente – rilancia il futuro. Ecco il Vino Santo Trentino DOC è l’insieme di tutto questo, e non solo.

 

E’ il semplice difficile da farsi, è l’assoluto o il niente. Vino Santo del Trentino, da non assimilare al Vinsanto toscano: diversi per stile di vinificazione, pratiche vendemmiali, stagionature e orgoglio territoriale. Simili solo nel nome.

 

In Trentino si sfrutta la particolarità delle uve Nosiola, una varietà stanziale a bacca bianca, in grado di generare due vini completamente diversi: fresco e beverino - se le uve sono vinificate subito dopo la vendemmia - e un nettare suadente e complesso come il Vino Santo, quando la pigiatura avviene dopo che le uve sono state appositamente fatte appassire. Cernita certosina, grappoli adagiati su appositi graticci chiamati ‘arèle’. Chicchi aggrediti da muffe nobili - botritys cinerea - per concentrare indelebili caratteri organolettici. Uve appassite, pigiate solo nella settimana che precede pasqua. Un rito di cultura enoica conservato solo da una piccola schiera di vignaioli, sette aziende della Valle dei Laghi.

 

Il mosto viene subito messo in piccole botti di legno e lasciato riposare per anni. Quello della vendemmia 2021 si potrà assaggiare - secondo il disciplinare di tutela della DOC - solo a partire dal 2029! Per ulteriori memorabili degustazioni pronte a sfidare a lungo il tempo. Un vino dolce che ha la sua forza nell’acidità. Equilibrio suadente, possente, gentile nella sua setosa vigoria. Mai monocorde. E’ il passito che ricorda il sapore dell’uva appena raccolta e immediatamente rilancia altri sentori, stimola sensazioni gustative che richiamano alla mente saperi dimenticati, custoditi, sedimentati in una memoria enoica di una minuscola comunità di vignaioli. Intuizioni, esperienze che possono essere tramandati, scoperti e rilanciati proprio grazie all’assaggio di questo vino autenticamente trentino.

 

Dolce per antonomasia, e dunque indiscutibilmente buono. Del resto ha dalla sua parte anche il rafforzativo ‘santo’. Che non è una definizione di poco conto. D’accordo, probabilmente è ‘santo’ siccome le uve che lo generano sono pigiate la settimana santa, poche ore prima della pasqua. ‘Xantos’ erano chiamati pure i vini che anticamente giungevano sulle Alpi – tramite navi veneziane – dalle isole greche, Santorini in primis, vini dolci, preziosi, forti nel grado alcolico, nella mielosa consistenza, spessi e – diciamolo pure – quasi sempre scissi nel rapporto sapore/aroma, ma lo stesso esclusivi, esotici, insoliti perché da uve lontane di grappoli maturati nel torrido caldo mediterraneo.

 

Per secoli il fascino del vino dolce s’è basato sulle rotte mercantili dell’Adriatico.

 

Citazioni enoiche s’intrecciano pure con l’evoluzione della Storia della Chiesa in età bizantina. Con il ruolo del Cardinal Bessarione, umanista tra i più autorevoli, la caduta di Costantinopoli nel 1453 e il salvataggio di opere culturali che mai sarebbero giunte in Occidente. Vini compresi, che Venezia diffuse nei territori bagnati dall’Adriatico, ma pure verso le sorgenti dei fiumi che sfociavano nell’ampio Golfo della Serenissima. Probabilmente anche tra le Dolomiti, nella Conca verso il Garda, baciata dall’Ora, la brezza che consente la rinascita dell’uva fatta appassire. In uno scambio d’informazioni – e di culture del gusto – arrivate anche a Trento, per il Concilio.

 

Poi – complice la decadenza del Leone di San Marco, l’espansione spagnola, il successivo sviluppo di Abbazie, conventi e monasteri in zone vitivinicole già vocate – s’è intuito che il vino dolce si poteva ottenere anche da viti nostrane, coltivate in determinate zone, colture basate su culture specifiche, consuetudini contadine, intuizioni tra torchi, tini e botti, l’interpretazione dell’andamento stagionale. Sfruttando non solo il sole che bacia i grappoli, ma soprattutto il vento, l’aria, il microclima. Proprio così: è il clima che consente o no l’appassimento delle uve per vini dolci. Quelle che subito dopo la vendemmia devono concentrare gli zuccheri nei chicchi, trasformando lentamente gli acini, brutti da vedere, ma pregni di carattere, di sostanze indispensabili per poter far nascere il ‘passito dei passiti’, appunto il Vino Santo trentino.

 

Vino che custodisce il rito di vendemmie lontane, vino che soddisfa la bramosia, che trasforma tante fatiche viticole e tecniche di cantina in meritati piaceri. Intimi, poiché riservati, gelosi – o meglio: golosamente – cercati.

 

Fatiche e speranze. Pochi altri vini hanno radici così profonde nell’esperienza viticola. Perché è facile fare vino dolce in terre calde, dove la vite è pianta quasi spontanea. Diverso è invece interpretare l’uva coltivata per sfida, per mettersi alla prova, esaltare legami inscindibili tra uomo-vite-territorio. Il Vino Santo trentino è una concreta conferma di questa assoluta triangolazione. Vino di un luogo, di una sola varietà d’uva, ‘baciato’ da un clima esclusivo. E del mito che rilancia la storia di un vino dolce buono.

 

Bontà gustativa che stimola buoni pensieri.

 

La Valle dei Laghi, quella incastonata tra il Monte Bondone, la conca verso il Garda disseminata da sette caratteristici laghetti, protetta dalle Dolomiti di Brenta e dalle creste in quota del gruppo Paganella. Valle dove le viti quasi si confondono nell’azzurro degli specchi d’acqua e il terso cielo blu alpino. Viti da secoli coltivate su campi strappati alla montagna. Su terrazzamenti che hanno fortunatamente impedito lo sfruttamento intensivo del territorio. Qui non si vedono vigneti senza imperfezioni. L’estetica è ancora frutto della mano dell’uomo, del vignaiolo. La mano sicura ha piantato ‘ad occhio’ il filare, rispettato il crinale della collina, la (giusta) direzione dell’esposizione verso il sole del pomeriggio. L’occhio non è attirato da vigneti con piante disposte secondo i parametri dell’indicatore satellitare (GPS) quelli che rendono tutto ordinato, tutto uguale, distanze calibrate al centimetro, file quasi infinite di viti perfette nella loro esteriorità, che spuntano su terreni curatissimi, spogli, diserbati, senza spontanei fiori di campo.

 

E’ il vino della rinascita, che supera la stagionalità e si trasforma in qualcosa di magico, decisamente esclusivo. Libera il sogno, rilancia la passione. Intesa come coinvolgimento sensoriale. Precisa e determinante la zona d’elezione: in Valle dei Laghi, prevalentemente nel Comune di Madruzzo, con le sue roccaforti millenarie, con il castello sul lago Toblino. Conca amena, paesaggio rilassante, tra acqua, rocce e piante di ulivo che scandiscono un paesaggio alpino unico, benefico in tutto. Talmente rilassante che riuscì a domare (leggenda vuole) anche la furia di Attila.

 

Vino Santo che in questa siccitosa primavera - ma purtroppo ancora bellicosa - induce almeno simbolicamente ad auspicare il più presto possibile un brindisi per una pasqua di pace.

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