Un film con la montagna nel cuore in concorso alla Mostra del cinema di Venezia, ecco "Vermiglio" di Maura Delpero
Il film "Vermiglio" della regista Maura Delpero in concorso al Lido: una storia d’amore in tempo di guerra che esplora e analizza come le donne si siano ritrovate a ricoprire ruoli che non hanno scelto a causa di norme sociali radicate profondamente

di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.
Preciso, per niente lezioso. Un film con la montagna nel cuore, l’alta quota della Val di Sole, una storia in un susseguirsi di stagioni che sfrutta peculiarità scenografiche tipicamente trentine per un respiro molto più vasto. Tra la vita grama di una comunità alpina alle prese con consuetudini apparentemente senza tempo.
La Mostra ha accolto con entusiasmo (applausi sperticati in laguna, dopo l’anteprima per la stampa) questo film di Maura Delpero, regista nata a Bolzano, radici familiari strettamente legate a Vermiglio, nome del paese solandro dove è ambientato, incastonato tra vicende post belliche che scardinano la vita di una giovane contadina e costringono gli abitanti del paese a confrontarsi con l’esterno, tra aspirazioni dei giovani, la rassegnazione degli anziani.
Una storia di neonati, di madri costrette a ripetuti parti, uomini schivi, per certi versi sottomessi pure alla saccente cultura del maestro della locale scuola elementare, una pluriclasse che manda i gli scolari più obbedienti a studiare nei collegi religiosi della città, Trento nominato solo per questa circostanza. Relegando alla fatica dei campi i ragazzi più arditi.
Cast di esordienti, tutto Vermiglio coinvolto nei mesi di lavorazione cinematografica. Film parlato rigorosamente in dialetto, una presa diretta tra vagiti di bimbi, la cadenza della morra, il gioco rustico, le aspettative delle bambine più intraprendenti. "Vorrei essere un prete - dice una delle piccole protagoniste - per carpire segreti". Inconfessabili.
Sogni, aspirazioni, pure fantasiosi peccati da espiare con ancestrali credenze contadine. E ancora: innocenti trasgressioni con una bianca piuma che sotto le lenzuola carezza le gambe di sorelle, bambine stipate nel lettone di casa, cantilene, fiabe che certo non dimenticano neppure di evocare lo spettro dell’orso.
Movenze e modalità espressive ben ‘registrate’ dalla troupe, diretta dalla Delpero con indubbia maestria. Mano felice, un tocco di estrema semplicità e altrettanta determinazione. Richiami a maestri del cinema del calibro di Ermanno Olmi, pure di Giorgio Diritti. E una fotografia ( Mikhail Krichman) in piena sintonia con la fonetica del dialetto, parte portante degli effetti musicali ( curati da Matteo Franceschini).
"Per me Vermiglio - inteso come film - è un paesaggio dell’anima, un ‘lessico familiare’ che vive dentro me, sulla soglia dell’inconscio, un atto d’amore per i miei antenati, verso il paesino, pure autobiografico, dedicato alla figura del maestro elementare, figura portante della mia stessa dinastia".
Vermiglio insomma vibrante, nel nome come sullo schermo. Comunità che dovrà fare i conti con il ricambio generazionale della montagna - le ragazze costrette a trasferirsi nelle metropoli come ‘serve’ nelle case delle famiglie dei ricchi - ma pure con le allettanti proposte di trasferire in Cile i nuclei familiari. Migrazione per certi versi scellerata, subita da centinaia di famiglie, non solo trentine.
Per concretizzare questo suo secondo importante film, Maura Delpero ha davvero girovagato per tutti i paesi della vallata trentina. Recuperando consuetudini sedimentate nella sua memoria giovanile, scanditi da racconti paterni, per poi fissare sullo schermo il fascino delle processioni religiose, la struggente bellezza dei cimiteri sepolti nella neve, il ritmo della mungitura, il profumo del latte servito nelle ciotole dopo la bollitura sulla stufa a legna. Con una storia d’amore, sincera quanto enigmatica. Ma questa è una vicenda tutta ‘da vedere’.
Vermiglio sarà nelle sale dal prossimo 19 settembre.