Scivolare sul Titanic: la pista da bob di Cortina è "il simbolo della società dello spettacolo a cui non riusciamo a rinunciare"
A un anno esatto dall'inizio delle Olimpiadi Invernali Milano - Cortina 2026, uno sguardo al discusso "sliding centre" in fase di realizzazione a Cortina d'Ampezzo: "un simbolo eclatante dell’epoca che stiamo vivendo e del modo in cui ne stiamo affrontando le drammatiche sfide, col pensiero e col fiato corto, seguendo quella che è la logica della simultaneità e dell’immediatezza"
![]( https://cdn.ildolomiti.it/s3fs-public/styles/articolo/public/montagna/articoli/2025/02/bobtitanic.png?itok=YJPTBKDr)
![](https://cdn.ildolomiti.it/s3fs-public/styles/marker/public/autori-montagna/varotto.jpg?itok=aIHZasLs)
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.
La sensazione è questa: siamo tutti, o quasi, immersi in una atmosfera da the show must go on, bisogna continuare a produrre ricchezza, far crescere i consumi, sostenere il Pil, insomma non bisogna spegnere la musica sul Titanic perché altrimenti il panico si diffonde mentre la nave sta per affondare. Godiamoci allora il presente, del doman non v’è certezza. È sempre meglio una gallina oggi, l’uovo domani – se ancora resterà – che se lo dividano pure i posteri, affari loro.
La pista da bob di Cortina è un “simbolo” anche per questo: è il simbolo della “società dello spettacolo”, a cui non riusciamo a rinunciare, per tanti motivi: per egoismo, per calcolo economico miope, per “struzzaggine”, per indifferenza al dove e al quando; uno spettacolo fuori tempo massimo in tutti i sensi: fuori dal tempo meteorologico, fuori dal tempo ecologico, ma anche fuori dalla logica economica, se si fanno bene i conti (cioè considerando socializzazione delle perdite e privatizzazione dei profitti), e dunque fuori dal tempo semplicemente del buonsenso.
Struzzaggine, dicevo: un termine che non è ancora entrato ufficialmente nel vocabolario della nostra lingua (stronzaggine invece c’è, eccome), allo stesso modo in cui Antropocene non è ancora entrato nel vocabolario ufficiale delle ere geologiche (anche per quello serve ancora del tempo perché le prove siano davvero “inconfutabili”: anche la scienza a volte è miope, cioè non riesce a vedere lontano). Ecco, la pista da bob è un simbolo anche perché possiamo immaginarla come un gigantesco struzzo che mette la testa sotto la sabbia.
È un simbolo eclatante dell’epoca che stiamo vivendo e del modo in cui ne stiamo affrontando le drammatiche sfide: col pensiero e col fiato corto, seguendo quella che è la logica della simultaneità e dell’immediatezza, dalla quale ci metteva in guardia già quasi cinquant’anni fa il filosofo delle religioni Hans Jonas. Era il 1979 quando pubblicava quello che forse è il libro per questo secolo, che tutti dovremmo imparare a memoria: Das Prinzip Verantwortung, tradotto in Italia nel 1993 da Einaudi col titolo Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica. All’epoca non c’era ancora internet, non c’erano i pc, non c’erano gli smartphone, era una società tecnologica ai minimi termini rispetto a quella odierna, e l’evidenza dei cambiamenti climatici non era ancora conclamata (erano ancora anni di inverni freddi e nevicate abbondanti). Eppure, Hans Jonas era stato in grado di elaborare un “pensiero lungo”, di indicarci la strada verso un’etica della previsione, ci avvertiva già della necessità di applicare il “principio di responsabilità” ad ogni gesto dell'uomo, chiamato a prendere in considerazione le conseguenze future dei suoi atti.
Quella suggerita da Jonas è una rivoluzione antropologica di immensa portata, ci costringe a mettere in discussione (nel senso di ri-significare) niente di meno che uno dei capisaldi evangelici: “ama il prossimo tuo come te stesso”, un comandamento che risale al Levitico, un testo di oltre 3000 anni fa, e che riecheggia in tutte le religioni. Il prossimo è, etimologicamente, chi ci è più vicino. E perché amare solo il “prossimo”, chi ci è vicino, se le conseguenze delle nostre azioni ormai hanno assunto una portata planetaria, e il vicino sta dall’altra parte del pianeta? Come conciliare questo cortocircuito in cui il vicino è lontanissimo, e il lontano vicinissimo? Già conciliare il principio di reciprocità alla prossimità è difficilissimo, figurarsi estenderlo su scale spaziali e temporali dilatate a dismisura dalla società tecnologica… Amare il “prossimo” come se stessi è un comandamento che non ci basta più, a meno di non dilatare il concetto di prossimità in ragione della potenza tecnologica delle nostre azioni, che si spingono ormai lontanissimo, allo stesso modo in cui le retroazioni negative fanno giri lunghissimi, di cui perdiamo cognizione e responsabilità. Ecco spiegata la struzzaggine della pista da bob, un comportamento perfettamente umano, in fondo, ma che non è più al passo con i tempi in cui viviamo, e non è all’altezza di un Homo sedicente sapiens.
La pista da bob è un simbolo di inadeguatezza umana alle sfide del nostro tempo anche per il suo essere “inno alla velocità estrema”, sfida “prometeica” ad ogni possibile attrito o limite imposto dall’esterno. Ancora Jonas: “la soluzione si prospetterà solo nel momento in cui l’uomo, posto dinanzi alla situazione-limite a cui ha condotto lo sviluppo tecnico-scientifico, riuscirà a prendere consapevolezza delle trasformazioni irreversibili indotte sui processi naturali e degli effetti a lungo e a lunghissimo termine che mettono in forse la stessa esistenza delle generazioni future”. Solo la consapevolezza di questo pericolo, invisibile nell’immediato, condurrà l’uomo ad un nuovo impegno etico, portandolo a sentirsi responsabile nei confronti della natura e quindi nei confronti dell’uomo stesso e della sua esistenza. Solo a questo punto il prometeismo cederà il passo, secondo Jonas, a una nuova etica globale.
È un percorso lungo, richiede tempo e pazienza, si procede a piccoli passi. Uno di questi è il crescente dissenso nei confronti di queste opere: non è ancora pensiero dominante, altrimenti anche la politica farebbe altre scelte, ma è consapevolezza che sale, e trova nel Manifesto de L’AltraMontagna un punto fermo, una posizione costruttiva e determinata a procedere in altra direzione, a partire da una semplice pista da bob: una occasione che avrebbe potuto favorire la cooperazione internazionale per evitare lo spreco di risorse, per ridurre gli impatti ambientali, per favorire un nuovo modo di vivere e abitare non solo la montagna, ma il pianeta.
È andata com’è andata, ma non è mai troppo tardi: nel febbraio 2026, in diretta televisiva mondiale, la squadra italiana di bob dopo il primo settore della pista è in testa di una manciata di millesimi sugli agguerriti rivali norvegesi. Ad un certo punto però accade qualcosa di inatteso: nel mezzo delle paraboliche si alza una scia di fumo bianco, i frenatori hanno improvvisamente sollevato le leve dei freni e quel missile di vetroresina lanciato alla massima velocità lentamente si ferma in mezzo alla pista. Gli atleti scendono dal bob sorridenti come non mai, si abbracciano e battono il cinque, alzando le dita in segno di vittoria a favore di telecamere. Basta correre, è il momento di fermarsi. Non hanno vinto loro, abbiamo vinto tutti, ha vinto il pianeta. La squadra di bob italiana è entrata nella storia, non delle Olimpiadi invernali: nella storia dell’Umanità e dell’Antropocene.
Questo testo è tratto dal libro "Scivolone olimpico", edito da People.