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Attualità

L'Antropocene non è ancora la nostra epoca geologica, ma attenzione: non dobbiamo spostare l'attenzione dalla luna al dito

No, non siamo entrati nell’epoca dell’Antropocene. La notizia, diffusa dal New York Times il 5 marzo, ha fatto eco su diverse testate giornalistiche in tutto il mondo: dopo 15 anni di discussione, un comitato scientifico composto da geologi provenienti da diverse parti del mondo ha deciso che l’Antropocene non diventerà ufficialmente un’epoca nella linea geologica della terra

di
Francesca Roseo
23 marzo | 18:00
Questo articolo si rispecchia nei nove punti del Manifesto,
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.

“Viviamo in un pianeta che è sempre più trasformato dall’attività umana, viviamo nell’Antropocene” sono le parole di Erle C. Ellis durante una conferenza all’Università del Maryland. Ma che cos’è l’Antropocene? L’ingresso di questo neologismo nella lingua comune a partire dagli anni 2000 è da attribuire al chimico dell’atmosfera Paul Crutzen e al biologo marino Eugene F. Stoermer, anche se prima di loro già altri notarono i segni indelebili dell’attività umana sugli strati più superficiali della terra, come il geologo lombardo Antonio Stoppani che a metà ‘800 coniò il termine Antropozoico per indicare l’epoca che stiamo vivendo. Quando parliamo di Antropocene ci riferiamo dunque a un termine che era stato proposto per indicare l’attuale epoca geologica, nella quale il clima, l’ambiente e i processi geologici sono stati fortemente modificati e influenzi dalle attività umane.

 

Come si definisce l’inizio di un’epoca? *

 

Per quindici anni si è dibattuto sull’ipotesi di introdurre all’interno del tempo che chiamiamo Quaternario una nuova epoca dominata dall’impronta umana - ovvero l’Antropocene - dichiarando così la fine dell’Olocene, ufficialmente l’epoca attuale il cui inizio risale a 11.700 anni. Tuttavia, definire l’inizio di un’epoca geologica non è cosa da sbrigare in poche ore. Il pilastro imprescindibile su cui si regge l’intero approccio scientifico al processo decisionale è piuttosto logico: devono esserci delle evidenze a livello globale di un indicatore (chiamato marker) all’interno di una sezione geologica che permetta ai geologi in diverse parti del mondo di confrontare tra loro delle successioni rocciose e stabilire, secondo un metodo scientifico, se le rocce hanno la stessa età.

 

Entra in gioco la scala cronostratigrafica, che possiamo immaginare come una sorta di “calendario del tempo geologico”, le cui unità cronostratigrafiche sono state definite a livello internazionale e corrispondo a un insieme di strati di sedimenti che, attraverso il processo di litificazione, sono stati trasformati in roccia. All’interno di questo strato di tempo intrappolato nelle rocce è possibile identificare un riferimento del suo inizio e fine, come per esempio la comparsa di una forma di vita o un picco nella concentrazione di un elemento, la cui presenza deve essere identificata facilmente nella successione dei diversi strati di rocce in tutto il mondo, così da consentirne un’univoca collocazione temporale. Questi elementi vengono per l’appunto chiamati marker, ovvero marcatori, e sono la stella polare da seguire per orientarsi nelle profondità del tempo geologico poiché segnano l’inizio – e quindi anche la fine - di un intervallo di tempo (e delle rocce che lo rappresentano) in modo isocrono.

 

 

Chi e come ha cercato di definire l’inizio dell’Antropocene? *

 

Dal 2009 il Gruppo di Lavoro sull’Antropocene (Anthropocene Working Group) era impegnato nella ricerca di evidenze stratigrafiche geologiche facilmente individuabili per definire l’inizio dell’Antropocene in quanto epoca. I risultati sono stati poi sottoposti alla Subcommission on Quaternary Stratigraphy (Sqs) – sottogruppo della International Commission on Stratigraphy (Ics) – che si occupa di studiare le unità cronostratigrafiche che caratterizzano il periodo geologico chiamato Quaternario, che comprende sia l’Olocene, ovvero l’epoca presente, che il Pleistocene. La Sqs, con dodici voti contrari, quattro a favore e due astensioni, ha stabilito che i marker proposti per definire da un punto di vista tecnico e “formale” l’inizio dell’Antropocene in quanto epoca non erano sufficientemente riconoscibili all’interno degli strati rocciosi nonostante le numerose pubblicazioni scientifiche e i diversi campioni analizzati.

 

La proposta era infatti quella di collocare, attraverso marker facilmente identificabili, il passaggio tra Olocene e Antropocene, attorno agli anni Cinquanta del secolo scorso. Quali marker erano stati proposti materiali plastici, petrolio e i radionuclidi derivanti dalle esplosioni delle testate nucleari avvenute tra gli anni Quaranta e Sessanta che hanno rilasciato in atmosfera elementi di neoformazione che sono successivamente precipitati, sedimentandosi nello strato roccioso più o meno allo stesso momento su tutta la terra.

 

 

I segni dell’Antropocene in montagna e dove trovarli

 

L’AltraMontagna ha intervistato Massimo Bernardi, paleontologo e direttore dell’area ricerca e collezioni del Museo delle Scienze di Trento (MUSE), il quale ci ha raccontato di una stalagmite custodita nelle collezioni museali del MUSE, proveniente dalla Grotta di Ernesto, che è stata presa in considerazione nel dibattito preliminare. Questa stalagmite (concrezione calcarea a forma di colonna che “cresce” dal pavimento, tipica delle grotte carsiche), cresciuta per i passati 8500 anni all’interno della Grotta di Ernesto (Trentino Orientale), contiene successioni di livelli di carbonato di calcio che conservano componenti atmosferiche di vario tipo e che comprendono parti dell’orizzonte temporale preso in analisi. Più in generale, le grotte sono considerate dei registri affidabili delle condizioni climatiche e ambientali in quanto sono in grado conservare e trattenere tutti quei marker sopracitati necessari per definire le unità cronostratigrafiche.

 

Sebbene il voto della commissione dei geologi abbia respinto la proposta di denominare Antropocene l’epoca presente per una valutazione tecnico-formale di carattere puramente geologico, l’impatto ambientale delle attività umane è innegabilmente visibile e tutt’ora pienamente in corso a livello mondiale. Ormai da millenni l’ambiente è continuamente modificato, riplasmato, spesso stravolto dalle attività umane, e questo non riguarda solo contesti come le pianure o le coste, dove è fin troppo facile percepirlo, ma anche le montagne, che a un primo sguardo possono sembrare poco toccate da questo processo. A titolo di esempio, un gruppo di ricercatori ha trovato delle evidenze stratigrafiche sul monte Fallère, in Valle d’Aosta, che mostrano come già 5600 anni fa le attività umane iniziarono a modificare significativamente gli ambienti alpini: in quest’area, le foreste montane d’alta quota furono permanentemente distrutte per lasciare spazio a zone di pascolo. La natura porta su di sé diverse cicatrici lasciate dalle attività umane, sia antiche che recenti. Basti pensare ai cambiamenti che le dighe comportano per torrenti e bacini montani, agli argini dei fiumi ingabbiati in letti di cemento in cui scorrono acque sempre più inquinate e agli effetti della crisi climatica, che si fanno strada nella nostra quotidianità anche (e, forse, soprattutto) per mezzo delle perdite economiche riscontrate nel settore agricolo.

 

 

Ma quindi siamo o non siamo nell’Antropocene?

 

L’avvento di quello che al di fuori della stretta terminologia geologica possiamo comunque continuare a chiamare “Antropocene”, in quanto periodo in cui le attività umane hanno condizionato in modo indelebile il pianeta, ha origini ben più lontane dell’uso dei combustibili fossili o i test nucleari. Chiediamo quindi a Massimo Bernardi che impatto può avere questa notizia sulla società e nell’ambito della comunicazione scientifica. “Mi auguro non abbia alcun impatto e che chi si occupa di comunicazione non racconti la bocciatura da parte dell’ics in modo strumentale. La valutazione emessa è di tipo tecnico formale mentre nulla dice rispetto alla gravità dell’impatto umano sull’ecosistema Terra. Con il voto contrario da parte della Subcommission on Quaternary Stratigraphy ci siamo di fatto (per ora) liberati di quello che rischiava di essere solo un “simbolo”, un fantoccio formale che avrebbe formalizzato una data storicamente arbitraria per l’inizio dell’Antropocene a metà anni Cinquanta: una cronologia del tutto incoerente rispetto alle evidenze degli effetti delle attività umane sulla terra. Anche se fosse stato approvato l’utilizzo di un marker, funzionale da un punto di vista tecnico, per decretare l’inizio dell’Antropocene nel 1950, a cosa ci servirebbe? Le unità cronostratigrafiche devono primariamente essere utili ed è difficile immaginare la rilevanza stratigrafica di un’unità geologica iniziata l’altro ieri. A tutti coloro i quali, invece, si occupano degli effetti dell’impatto umano sul pianeta, è invece il fenomeno stesso ad interessare, indipendentemente dalla sua formalizzazione geologica, e che rimane ovviamente della stessa rilevanza e gravità anche dopo questa bocciatura formale. Il dibattito ora dovrebbe piuttosto spostarsi sul processo in atto, quindi sulle dinamiche e indubbiamente anche sulle responsabilità.”

 

Questa decisione tecnica e formale non deve quindi spostare l’attenzione dalla luna al dito, anche perché l’Antropocene in quanto processo sta correndo più veloce delle epoche geologiche e non mostra segni di rallentamento.

 

 

*fonte: intervista Radio3 Scienza a Massimo Bernardi, paleontologo e direttore dell’area ricerca e collezioni del Museo delle Scienze di Trento (MUSE),

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