L'eredità del caso Francesca Gino, docente trentina di Harvard, e le ombre sul mondo della ricerca accademica, Baccini: ''Il sistema del 'pubblica o muori' è tossico''
Del fragoroso caso della professoressa trentina di Harvard e della sua conclusione, in Italia non se ne è praticamente parlato: cosa è successo? E perché il mondo della ricerca accademica, in Italia e non solo, si trova di fronte a un crisi profonda e in apparenza irrisolvibile? Per fare luce Il Dolomiti ha intervistato il professor Alberto Baccini, dell'Università di Siena, specialista nel campo delle frodi accademiche: "Il problema è il sistema di incentivi cui sono sottoposti i ricercatori, spinti a pubblicare e citare da un sistema accademico ormai divenuto tossico"
TRENTO. È il 2018 quando Zoé Ziani, giovane dottoranda in organizational behavior in un’università di Parigi, si imbatte in un articolo accademico destinato a cambiare per sempre la sua carriera e, in maniera ben più fragorosa, quella di Francesca Gino.
Ma chi è Francesca Gino? Un nome forse più noto alla cronaca e al dibattito pubblico statunitense che non a quello italiano. Trentina originaria di Tione, classe 1977, laurea in economia a Trento prima di “spiccare il volo" Oltreoceano, la professoressa Gino in quel momento è all’apice di una folgorante carriera accademica: è una docente della Harvard Business School, è stata inserita tra i 50 pensatori di management più influenti al mondo, è una vera e propria star della mondo della ricerca comportamentale e il suo stipendio (così si legge da più parti) è tra i più elevati a livello internazionale.
L’articolo che cattura l’attenzione di Zoé Ziani (“The Contaminating Effects of Building Instrumental Ties: How Networking Can Make Us Feel Dirty”) è pubblicato da Gino e altri co-autori ed è considerato una sorta di pietra miliare della letteratura della materia: quello che inizia come una semplice curiosità accademica si trasforma presto in una delle storie più clamorose della recente storia della scienza comportamentale.
Tra accuse di frode, indagini interne e una causa da 25 milioni di dollari, il caso di Francesca Gino ha scosso le fondamenta dell’università più prestigiosa del mondo, ponendo domande cruciali sull’etica nella ricerca e sulla protezione dell’integrità scientifica in tutto il mondo.
THE BIGGER THEY ARE, THE HARDER THEY FALL.
La giovane Ziani, con l’entusiasmo tipico di chi si affaccia al mondo accademico, analizza i dati dell’articolo di Gino per approfondire la psicologia del networking: ma invece di risposte, trova domande. Numeri che non tornano, analisi incoerenti e valori “sospetti”. Quella che inizialmente sembrava una svista metodologica inizia a prendere la forma di una manipolazione consapevole dei dati.
Quando decide di segnalare le sue preoccupazioni ai suoi supervisori, Zoé però si trova davanti un muro di scetticismo e indifferenza: anziché supportarla, i suoi responsabili cercano di dissuaderla, definendo la questione irrilevante e cercando di convincerla a non sollevare un polverone contro una ricercatrice di fama mondiale.
Ma Zoé non si arrende: decisa a trovare la verità, coinvolge un collega ricercatore e insieme individuano altri tre articoli sospetti firmati da Gino. A quel punto, non trovando supporto dalla propria università, si rivolgono a Data Colada, un blog indipendente “specializzato” nell’individuare casi di cattiva condotta scientifica.
Quando Ziani presenta il suo caso a Uri Simonsohn, Leif Nelson e Joe Simmons – i fondatori di Data Colada –, i tre adottano un approccio ragionevolmente cauto: in gioco ci sono la reputazione di Gino e la credibilità dell’intera disciplina. Così prima di muovere qualsiasi accusa, i ricercatori sottopongono le prove a un’indagine rigorosa, analizzando ogni dato “con il microscopio”.
Dopo mesi di lavoro le conclusioni sarebbero per gli accusatori inequivocabili: si tratta di frode. Tra le prove raccolte, emergono addirittura discrepanze nei file Excel che suggeriscono manipolazioni manuali dei dati, numeri incompatibili con le analisi statistiche dichiarate e dettagli che non lasciano spazio a errori accidentali. Siamo nel 2021 e Data Colada, prima di pubblicare alcunché, presenta le proprie scoperte all’Harvard Business School, aprendo le porte a un’indagine interna. Un’indagine interna portata avanti dalla stessa Harvard che durerà ben 11 mesi: l’università analizza scrupolosamente i file di lavoro e persino le email e le comunicazioni tra Gino e i suoi co-autori. Il rapporto finale, lungo 1.300 pagine, è inequivocabile: le accuse sono confermate, così Harvard decide di sospendere Francesca Gino senza stipendio, rimuovendola dalle sue funzioni accademiche.
Nel frattempo, ottenuto il semaforo verde da Harvard, Data Colada “sgancia la bomba” e pubblica sul proprio blog quattro post dettagliati, ognuno dedicato a uno degli studi incriminati, scatenando un vero e proprio terremoto mediatico.
Per Gino, però, la battaglia è appena iniziata. Siamo nel 2023 e la professoressa trentina decide che è il momento di passare al contrattacco, citando in giudizio Harvard e Data Colada per diffamazione e danni alla sua reputazione. La cifra richiesta? Ben 25 milioni di dollari.
Secondo Gino, le accuse non solo avrebbero distrutto la sua carriera, ma sarebbero state mosse con un intento “malevolo”. Francesca apre un blog (https://www.francesca-v-harvard.org) dove racconta la sua versione dei fatti, e concede una lunga intervista a La Stampa in cui ribadisce con toni perentori la sua innocenza: “Non ho manipolato nessuna ricerca, a Harvard un complotto contro di me: sono stata cancellata dal mondo accademico per rivalse interne”.
La comunità scientifica nel frattempo osserva con il fiato sospeso: il caso non riguarda più “solo” Gino, Harvard e Data Colada, ma impersonifica agli occhi di molti ricercatori e studiosi il diritto stesso di denunciare comportamenti scorretti senza temere ritorsioni legali (peraltro a cifre esorbitanti).
Ci avviciniamo alla fine (per ora) di questa lunga storia: nel settembre 2024 un giudice federale del Massachusetts, Myong J. Joun, chiude il caso. “Dismissed”. Il giudice di fatto respinge gran parte delle accuse di Francesca Gino, incluso il presunto reato di diffamazione, violazione della privacy e interferenza con i suoi rapporti professionali. Vale la pena di ricordare che il giudice ha comunque consentito di proseguire con la parte della causa relativa alla violazione contrattuale, sostenendo che le sanzioni disciplinari di Harvard (due anni di congedo non retribuito) potrebbero equivalere a una revoca de facto della sua titolarità, violando le stesse politiche disciplinari dell'università.
Il giudice ha anche mantenuto la denuncia di discriminazione di genere, mentre ha respinto completamente le accuse contro Data Colada.
GLI EFFETTI DEL “CASO GINO”.
Che il caso Gino abbia avuto un’eco mondiale fragorosa stupisce solo fino a un certo punto. Anzi, non stupisce affatto il professor Alberto Baccini: Baccini, fondatore e membro dell’Associazione Roars, è professore ordinario di economia politica dell’Università di Siena. Si occupa di storia del pensiero economico (teoria delle decisioni, probabilità), di bibliometria e valutazione della ricerca.
“Del caso Gino se ne è parlato in tutto il mondo – racconta Baccini a Il Dolomiti - intanto perché Francesca Gino è una star del suo campo di ricerca, quello di economia e psicologia comportamentale, con decine di lavori pubblicati sulle riviste più 'prestigiose'; e poi perché era una delle docenti più pagate di Harvard”. “C'è poi da considerare – prosegue il professore - che uno degli oggetti di studio del suo lavoro era la disonestà. E che i suoi contributi sono stati ampiamente utilizzati per provvedimenti di politica”.
Insomma, il mondo della ricerca ha ricadute concrete e significative, anche al di là della “cerchia” della comunità accademica. “Prendo come esempio un articolo con Dan Ariely e altri, pubblicato nel 2012 sui Proceeding of the Nation Academy of Science degli Stati Uniti, una rivista estremamente prestigiosa - di cui fu editor il premio Nobel Daniel Kahneman. In quell'articolo si documentava che se la firma sull'impegno di onestà veniva fatta all'inizio di un modulo (come quelli delle autodichiarazioni italiane) anziché in calce al modulo, l'incidenza delle fase dichiarazioni si riduceva del 10%”.
“Ebbene, secondo il New Yorker quei risultati furono usati dall'amministrazione Obama in un rapporto annuale della Casa Bianca e i governi di Regno Unito, Canada e Guatemala avviarono studi per determinare l'opportunità di rivedere i propri moduli fiscali, stimando di poter recuperare miliardi di dollari all'anno. Quell'articolo è stato ritrattato dalla rivista nel 2021, cioè è stato segnalato ai lettori in modo esplicito che quell'articolo non deve più essere considerato come conoscenza valida”.
Che le scienze "dure" (e non solo quelle, in tutta evidenza) abbiano un problema, o meglio, che il sistema della ricerca in generale sia troppo spinto sulla produzione quantitativa di articoli e pubblicazioni, ormai sembra un (preoccupante) dato di fatto.
“Tutto il sistema della ricerca – riprende Baccini - è ormai ingabbiato dentro il sistema del ‘pubblica o muori’ (publish or perish). Non si pubblica per accrescere la conoscenza disponibile, ma per aggiungere righe al proprio curriculum in vista di concorsi, promozioni e, alla fine, soldi. Questo porta a privilegiare la quantità sulla qualità; ad abbandonare ricerche rischiose e difficili da pubblicare a favore di ricerche 'di moda' che troveranno facilmente spazio sulle riviste di settore. Questa competizione a pubblicare spinge anche a smussare gli angoli della ricerca, a selezionare solo i risultati positivi e nei casi più gravi a manipolare o inventare dati e immagini su cui sono costruite le pubblicazioni. Nella discussione internazionale si parla ormai di inquinamento della ricerca”.
UN SISTEMA “TOSSICO”.
E dalle nostre parti le cose non vanno meglio: anche in Italia i nodi stanno venendo lentamente e dolorosamente al pettine.
“È difficile stimare l'impatto complessivo dell'inquinamento. In un recente simposio a porte chiuse di detective della scienza, a Parigi, i partecipanti hanno risposto a un sondaggio semiserio sull'estensione dell'inquinamento della scienza: il 25% delle pubblicazioni potrebbe essere inquinato in modo più o meno grave. Una recente stima indica invece un più modesto 7%. C'è però un generale consenso tra gli osservatori che le ritrattazioni siano solo la cima di un iceberg”.
“C'è, al di sotto dell'acqua, una massa di pubblicazioni inquinate in modo più o meno grave. E questa massa sta crescendo in modo consistente, grazie a recenti innovazioni come le cosiddette cartiere (paper mills): agenzie specializzate che scrivono articoli scientifici con dati inventati o copiati, e testo scritto in molti casi dall'intelligenza artificiale. Questi articoli vengono poi venduti ad autori accademici che hanno bisogno di pubblicare”.
E l’Italia annaspa: “Il nostro Paese non è certo tra quelli virtuosi. Sono ormai molti i casi documentati. Per studiare l'estensione dei cattivi comportamenti in Italia, con alcuni colleghi, abbiamo studiato il fenomeno delle autocitazioni: un autore cita se stesso per aumentare i propri indicatori citazionali e superare le soglie stabilite dal ministero per partecipare ai concorsi per professore universitario. L'Italia è il Paese con la più elevata incidenza di autocitazioni tra la cinquantina di paesi che abbiamo studiato. Le frodi accademiche e i cattivi comportamenti degli scienziati minano alla radice la fiducia del pubblico nella scienza”.
Ma c’è anche chi queste cattive pratiche le combatte e le denuncia, spesso contro “tutto e tutti”. “Allo stato attuale – dice Baccini - le frodi scientifiche e l'attività di disinquinamento della letteratura è condotta da scienziati o esperti che svolgono investigazioni nella gran parte pro-bono. C'è un gruppo di detective della scienza che agiscono alla luce del sole o coperti da pseudonimi che svolgono un preziosissimo lavoro di investigazione alla ricerca di dati fraudolenti o manipolai, di immagini ritoccate. La documentazione su questi casi è di norma resa pubblica attraverso la piattaforma www.pubpeer.com, dove chiunque può commentare articoli pubblicati segnalando anomalie, manipolazioni o frodi. C'è anche un importante lavoro giornalistico intorno a questi temi. In particolare segnalo il sito www.forbetterscience.com del giornalista indipendente Leonid Schneider. Alcuni provider italiani bloccano l'accesso al sito anziché oscurare un solo articolo come ordinato da un giudice di Perugia in una causa per diffamazione. E Retraction Watch”.
“Il problema però non è a mio avviso l'insufficienza di mezzi e detective. Il problema è il sistema di incentivi cui sono sottoposti i ricercatori spinti a pubblicare e citare da un sistema accademico ormai divenuto tossico. Da notare che in Italia il sistema è reso ancora più tossico dalle regole dell'abilitazione scientifica nazionale e della Valutazione della Qualità della Ricerca (Vqr) che premiano solo la quantità di lavori e il numero di citazioni ricevute. In assenza di un cambiamento delle regole del gioco della ricerca contemporanea, qualsiasi strumento e strategia appare insufficiente per contrastare un fenomeno dilagante”.
Ma casi come quello di Gino possono portare a una revisione significativa del sistema di pubblicazione scientifica? La risposta del professore è tranchant. “Purtroppo no. Ci sono tantissime iniziative in giro per il mondo volte a superare il cattivo funzionamento del sistema attuale di pubblicazione scientifica. Ma il sistema allo stato appare così forte e consolidato che sperare in un cambiamento nel breve periodo appare poco realistico”.