Guardami, sono una donna. Il patriarcato e lo sguardo di Barbara Poggio, una mostra e tre risposte alla domanda ''cosa possiamo fare?''
Ragazzo del 57, giornalista dal 79, troppo piccolo per il 68, ha scansato il 77 ma non la direzione dell’Adige (8 anni 8 mesi e 3 giorni) e la politica (24 mesi in consiglio provinciale tra il 2018 e il 2020)
Ma sì che esiste e resiste il patriarcato, in Italia: resiste nella società che continua a produrre maschi femminicidi; resiste nella Chiesa cattolica che riserva le gerarchie a una casta di maschi chiamati alla castità; resiste a Palazzo Chigi dove la prima donna presidente del Consiglio vuol farsi chiamare con l’articolo “il”; resiste nei Festival trentini (economia e sport) inaugurati da squadre monogenere di autorità organizzatrici di sesso maschile; resiste nella celebrazione di Bruno Kessler martedì sera al Sociale dove viene rievocato il fratello Angelico, ministro provinciale dei Cappuccini, ma non le due sorelle Antonia e Annamaria; resiste nella tv italiana dove Fazio chiama vicedirettore la vicedirettrice del Corriere e riserva un ruolo minimalista di bionda sub-annunciatrice a una gentile signora svedese; e dove, all’Eredità prima del Tg1, due ridenti fanciulle in minigonna con ruolo meramente decorativo (addette ai brindisi) vengono chiamate “professoresse”: un’offesa alle docenti di ogni ordine e grado.
E dunque ha avuto ragione Spazio Ramé (caos creativo, nella lingua dell’isola di Bali) a chiamare la prorettrice alle politiche di equità e diversità Barbara Poggio ieri, nella cornice della mostra “Guardami” del giovane pittore fiorentino Francesco Calistri, a parlare dello “sguardo del patriarcato”. Prima di un laboratorio di scrittura creativa a partire dai quadri, condotto da Matteo Pellegrini. Poggio, con la consueta chiarezza, pacata ma affilata, ha cominciato dallo sciagurato ministro Valditara, che ha dichiarato chiuso il patriarcato in Italia fin dalle riforme legislative del 1975, proprio in occasione della presentazione della Fondazione intitolata a Giulia Cecchettin, del cui comitato scientifico Poggio è stata chiamata a far parte.
Eppure la parola “patriarcato”, scomparsa dall’orizzonte dopo gli anni Settanta, si era riaffacciata nel dibattito pubblico italiano un anno prima, proprio per merito della sorella di Giulia Cecchettin, Elena, che l’aveva evocata a proposito del “bravo ragazzo” che aveva ammazzato Giulia.
Argomenta Poggio: “Elena aveva citato lo slogan femminista “Il mostro non è malato, è un figlio sano del patriarcato”. E a lei risponde il ministro, affermando che è finito 49 anni fa il regime giuridico del patriarcato, con la riforma del diritto di famiglia, che abroga tutta una serie di norme di epoca fascista o precedente, che sancivano la superiorità dell’uomo sulla donna. Con la parità tra i coniugi e quella patrimoniale. E con norme successive, in cui per esempio lo stupro diventa un delitto contro la persona e non solo contro la morale, e cadono certe attenuanti per il marito tradito che uccide la moglie. La cultura però non cambia per decreto legge. E in questo senso resiste. Ora, se guardiamo i dati, dal livello internazionale fino a quello comunale, possiamo dire che la cultura patriarcale resiste. Nella città di Trento, resiste a livello economico, sociale e anche nella toponomastica, dove pochissime vie sono dedicate alle donne, e di queste la maggior parte sono sante o madonne. Quindi il quadro è ancora fortemente squilibrato. In questo senso il patriarcato resiste”. (Trento, osservo io, non ha mai avuto una sindaca e il Trentino non ha mai avuto una presidente).
Il secondo passaggio dell’intervento di Poggio è stato dedicato allo sguardo maschile come estensione del potere patriarcale ed è uno sguardo che impone alle donne di essere conformi agli standard estetici o di comportamento dettati dall’uomo.
“Il concetto di sguardo maschile – ha detto la prorettrice – nasce negli anni Settanta all’interno della cultura femminista, in particolare è una critica cinematografica statunitense, Laura Mulvey, che ragiona su tre tipi di sguardi: del regista, del protagonista maschile, del pubblico. E osserva come la maggior parte dei film sono costruiti per assecondare uno sguardo di uomo che riproduce lo scherma: maschile attivo, femminile passivo. Le donne sono oggetti di desiderio, non soggetti autonomi. E ciò ha a che fare con i rapporti di potere e con la dimensione culturale, introiettata dalle stesse donne, che imparano a convivere con lo sguardo maschile e a compiacerlo. Nella comunicazione, e in particolare nella pubblicità, si continua dunque ad assistere alla oggettivazione-sessualizzazione dei corpi delle donne, anche per promuovere prodotti che non c’entrano con il corpo femminile, come è accaduto a Trento per vendere delle lenti ottiche, veicolate da un corpo nudo di donna. Nella pittura i nudi di donna continuano ad essere protagonisti e c’è un critico, John Berger, che osserva (“Ways of Seeing”) come nella rappresentazione visiva gli uomini agiscono e le donne appaiono, gli uomini guardano e le donne “osservano se stesse essere guardate”. La tv italiana è piena di questi corpi femminili, dalle veline in giù, soggetti che non parlano ma abbelliscono il contesto. Una cultura tossica che riproduce modelli di controllo e anche di violenza”.
Terzo punto della relazione di Poggio, appunto la violenza. “Frasi come “se l’è cercata, è colpa di com’era vestita”, atteggiamenti ancora molto diffusi come registrano ogni anno le indagini Istat, mentalità emblematiche e giustificatorie della violenza. Così, c’è un enorme problema di rappresentazione della violenza nei media, per cui si indugia su immagini di donne ripiegate su se stesse, che si nascondono la testa con le mani, un fenomeno di ulteriore vittimizzazione, come se fossero predestinate alla violenza, non soggetti che possono ribellarsi. E le parole che spesso sono giustificanti verso chi la violenza sulle donne ha praticato: l’amava troppo, non riusciva ad accettare che lei volesse separarsi, era una persona perbene, un bravo ragazzo”.
Tirando le fila, la prorettrice si è domandata che cosa si può fare. “1. Un lavoro di educazione, che va cominciato molto presto, nei percorsi scolastici, affrontando il tema della parità. 2. Lavorare nell’ambito della rappresentazione, evitando l’oggettivazione dei corpi femminili, e stimolando contronarrazioni che invertano la narrazione dominante. L’impatto fortissimo del caso Cecchettin non è dovuto solo al fatto che si trattava di un contesto “normale” ma anche al fatto che la sorella e il padre abbiano proposto una narrazione diversa, come quando Gino Cecchettin ha proposto di ragionare non sul mostro da sbattere in galera a vita, ma sul mostro che è in noi perché è parte della cultura in cui siamo cresciuti. 3. Gli uomini si assumano la loro responsabilità, perché quando si è in condizione di privilegio, come ancora accade agli uomini nella nostra società, si deve esercitare una responsabilità, che non c’entra con il concetto di colpa, ma è proprio una presa di coscienza del ruolo che si ha e delle responsabilità connesse”.
Alla mostra “Guardami”, fra tanti intensi ritratti femminili, su sfondo rosso o giallo o verde, colpisce un ritratto maschile sfregiato con alcuni colpi di forbici. La “vendetta” di una donna sull’uomo effigiato nel quadro. Violenza, certo. Ma di grado minore rispetto ai coltelli che usano i maschi per colpire a morte i corpi delle “loro” donne, di quelle che considerano loro possesso, oggetti del loro sguardo. Maschilista, padronale o patriarcale. Comunque, “dominante”.