Armando Punzo: ''Il teatro rivela le prigioni che tutti noi abitiamo''. Un laboratorio con il regista-autore della Compagnia della Fortezza del carcere di Volterra
Ragazzo del 57, giornalista dal 79, troppo piccolo per il 68, ha scansato il 77 ma non la direzione dell’Adige (8 anni 8 mesi e 3 giorni) e la politica (24 mesi in consiglio provinciale tra il 2018 e il 2020)
Nei suoi percorsi di teatro che portano anche oltre il teatro, Spazio Off guidato da Daniele Filosi propone la terza edizione del laboratorio del Maggese (progetto ideato da Federica Mattarei e Filosi) che ha una ben alta ambizione: “Incontrarsi altrove, praticare l’impossibile”. Sedici i partecipanti ammessi a quattro giorni intensivi, da giovedì 7 a domenica 10 settembre, negli spazi del Masetto, a Terragnolo vicino a Rovereto. Lo sguardo teatrale di Armando Punzo – pluripremiato regista, inventore della Compagnia della Fortezza nel carcere di Volterra – e la psicoterapia costruttivista di Chiara Lui si intrecciano, spiegano gli organizzatori, “per un’immersione nella pratica scenica di Punzo, nel suo metodo d’indagine della parola, e nella sua ostinata ricerca di immagini evocative alla ricerca di un uomo nuovo”.
Il laboratorio è aperto a registi, drammaturghi, attori e attrici, danzatori e danzatrici, performer, psicoterapeuti e psicologi e psicologhe selezionati attraverso curriculum vitae e lettera motivazionale. Ci sarà comunque un momento di incontro aperto con Armando Punzo, sabato 9 settembre alle 18.30, e conoscere il suo percorso artistico con la Compagnia della Fortezza. (A fine incontro c'è la possibilità di fermarsi a cena: prenotazioni scrivi@ilmasetto.com o 349 296 21 89). Abbiamo avuto l’occasione di fare qualche domanda al regista e autore napoletano, classe 1959, “Santo Genet” e “Shakespeare. Know Well” tra le sue ultime produzioni, premio Leone d’Oro Biennale 2023 dopo tanti altri riconoscimenti nazionali e internazionali che ne fanno una figura di riferimento di primo livello.
Armando Punzo, da 35 anni, dimostrando una straordinaria tenacia (e fortezza) fa teatro dentro (e fuori) il carcere di Volterra con la Compagnia della Fortezza. Com’è cambiato, lei, dal 1988 ad oggi?
Sono cresciuto anagraficamente ma è stato soprattutto un percorso importante dal punto di vista artistico, perché a me interessa la questione teatrale, dentro e fuori il carcere, mentre l’interesse generale, normalmente, è sul carcere come questione sociale. Ma l’arte non ha luoghi predefiniti, il momento artistico può accadere in qualsiasi luogo. E questo abbiamo dimostrato, a Volterra. Che l’arte ci fa comunicare, ci fa scoprire qualcosa di noi stessi.
Lei dice spesso che la prigione non è solo un luogo di reclusione ma una metafora del nostro essere umani.
Sì, attraverso il teatro mi accosto alla prigione non con un approccio da cronaca nera ma per scoprire la metafora dell’uomo prigioniero: siamo consapevoli e quanto lo siamo, del nostro essere prigionieri?
La sua, la vostra storia a Volterra dimostra che il carcere, in Italia, è una realtà che può essere movimentata, cambiata da dentro.
Volterra è una storia particolarissima e importantissima. In 35 anni abbiamo cambiato tantissimo, lentamente, cercando di costruire cose nuove, progetti bellissimi come il teatro stabile che un grande architetto, Mario Cucinella, ha progettato e nascerà. A Volterra ci sono le scuole, c’è il cinema, il teatro ha aperto un mondo e Volterra non è più solo un carcere, ma un luogo di arte e di cultura.
L’attuale governo di destra promette severità, sicurezza e sempre maggiori restrizioni alla libertà (relativa) di movimento e di incontro dentro le mura del carcere. Che ne pensa?
Penso che il nostro sia un percorso virtuoso che è andato avanti senza bisogno di sintonizzarsi con la politica. I governi possono essere di destra o di sinistra, conservatori o democratici, ma le buone pratiche che abbiamo creato e vissuto a Volterra danno buoni risultati, creano una situazione migliore, al di là delle regole nazionali, degli orientamenti politici. Volterra è un’esperienza ricchissima che andrebbe estesa, perché è dimostrato che fa solo bene. È il fare, non l’ideologia, che produce trasformazioni straordinarie.
Che cosa pensa dell’idea di poter superare il carcere come istituzione? Ci sono intellettuali ed esperti convinti che si possa arrivare a una società senza prigioni.
Io credo che non sia realistico pensare di eliminare il carcere. È appunto una prospettiva ideologica. Penso però che – attraverso esperienze come quella di Volterra – il carcere si possa trasformare e migliorare concretamente, e così migliorare la società. Che deve prendere coscienza della responsabilità collettiva rispetto alle persone che vengono recluse: la responsabilità dei loro gesti è anche una responsabilità nostra. Come è nostra responsabilità far sì che il carcere non sia un luogo dove si peggiora, come quasi sempre è, ma dove si può costruire qualcosa di buono, di migliore.
Lei ha detto che il male del crimine, del reato, da molti visto come un muro, lei lo vede trasparente, attraversabile. Ne è sempre convinto?
Il male non è un muro, una pietra, una roccia immobile contro cui ci si scontra e ci si ferma. Il male esiste, ma è trasparente perché consente sempre di andare incontro all’altro, scoprendone altre qualità. Il male è attraversabile perché è il nostro lato oscuro, che è dentro ciascuno di noi e in alcuni di noi si manifesta in modo eclatante. Vedere il male negli altri è semplice ma bisogna anche saper vedere il bene possibile. È una pericolosa illusione quella di poter buttar via la chiave della cella: è solo una forma di vendetta, che peggiora le storie delle persone e non le trasforma. La nostra storia a Volterra dice invece che un’istituzione come quella carceraria può anche produrre del bene, invece che reiterare il male.
Il suo è un teatro che esce dalle forme tradizionali per diventare un’esperienza umana e artistica di trasformazione. In questo senso, anche il suo ultimo spettacolo destruttura Shakespeare e contesta il teatro come rappresentazione della realtà. Quali sono i suoi maestri, qual è la sua idea “oltre” il teatro?
Io sono partito dal lavoro artistico, quello mi interessa, non sono un giurista e non sono un esperto di carcere anche se lo sono diventato malgrado me. Io vengo da Grotowski, dal gruppo internazionale l’Avventura, da una ricerca teatrale che va molto al di là del teatro tradizionale. Mi interessa la relazione con gli attori, la costruzione comune di uno spettacolo affrontando le fragilità, le debolezze travestite da forza. Se ci fermiamo a Shakespeare continueremo a rincorrere le problematiche sociali e a metterle in scena, reiterando storie di quattro secoli fa. Ma oggi siamo molto più informati di ciò che ci succede intorno: rappresentare l’uomo nella sua quotidianità, nelle sue forme psichiche, nelle sue malattie, mettere in scena un uomo che ci assomiglia non è il compito del teatro. Lo fanno meglio altri mezzi, come il cinema, i documentari, il giornalismo, le analisi sociologiche. Nel teatro invece dobbiamo riscoprire le potenzialità nascoste dell’essere umano, ritrovare consapevolezza e profondità, cominciando col cambiare la stessa produzione dello spettacolo.
Come si riesce a lavorare, per oltre trent’anni, in una comunità umana che cambia, tra entrate e uscite, conservando la coerenza del progetto?
Volterra è un carcere penale, non una casa circondariale, e dunque ci sono persone che restano per parecchi anni e che danno continuità… C’è il tempo di lavorare in profondità, di capire, di progredire. Senza pensare che il teatro sia una bacchetta magica ma cogliendone le grandi potenzialità. Aniello Arena, per fare un esempio, è stato con noi 16 anni, ha finito di scontare l’ergastolo, è una persona libera, fa l’attore professionista, è stato protagonista del film “Reality” di Garrone, ha una nuova vita e una nuova storia.
Dove si trova l’energia, ogni mattina dopo 35 anni, per ricominciare, per continuare, dentro la Fortezza? Nell’incontro con l’altro?
In 35 anni ci sono gli alti e i bassi ma la motivazione resta sempre quella iniziale, l’idea di un progetto che nasce prima dell’incontro con gli altri, delle relazioni umane che poi si creano: direi che l’idea è uno sguardo critico sull’essere umano e sul mondo. Da questo sguardo nasce un tema che si condivide con gli altri, prima dentro il carcere, poi anche con il pubblico fuori. Con la consapevolezza che è tutto più grande di me: e se qualcuno vuole indagare più a fondo le mie domande e le mie ragioni, c’è il libro-conversazione con Rossella Menna, appunto intitolato “Un’idea più grande di me”.
Dal laboratorio di questa fine settimana al Masetto, per persone del mondo del teatro e del mondo della psicologia, che cosa possono aspettarsi i partecipanti?
Il tema al centro del laboratorio è quello del ruolo. Ci siamo incontrati per metterci in discussione: non è il mio lavoro ma è un momento interessante di confronto e di domande. Il ruolo nel teatro, nella professione, nella vita. È possibile vivere senza un ruolo? E se un ruolo ce l’abbiamo, come si può trasformare? E come si fa ad essere consapevoli dei nostri ruoli? E come riusciamo a non farli diventare delle prigioni?
Alla prigione si torna dunque. Al nostro saperci, in qualche modo, dentro uno spazio con sbarre. Torna in mente Bob Dylan, cantautore laureato col Nobel, e dunque autorevole, anche sul tema dei carceri che abitiamo, che ci abitano: “Sono forse liberi gli uccelli dalle catene del cielo?”. Lavorare su se stessi e sulle nostre prigioni, quello che ha fatto nella sua breve vita la piccola grande Etty Hillesum (su cui anche Punzo lavorò, tanti anni fa) prima di finire annichilita – ma non cancellata dalla memoria – nella Prigione Assoluta del Lager. E ci soccorre anche la preziosa Laura Nyro del Bronx, eccola: “All I ask of living is to have no chains on me”. Solo questo domandiamo alla vita: essere liberi. Ma prima della liberazione dalle catene, c’è – Punzo puntualmente e pervicacemente docet – la consapevolezza da acquisire, sulle nostre quotidiane e personali prigioni.
Le tue prigioni. Le mie prigioni.