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Un secolo di insulina: tra Nobel, beagle e biotecnologie

Il diabete è sempre più diffuso, ma spaventa meno che cent’anni fa. Cosa è cambiato da allora e cosa forse cambierà in futuro?
DAL BLOG
Di Open Wet Lab - 17 maggio 2017

Siamo un'associazione di giovani studenti o ex-studenti, impegnati nella divulgazione scientifica. La wet biology è l'attività di ricerca che si fa in laboratorio e a noi piace mettere le mani in pasta

A Elizabeth Hughes, figlia del Governatore di New York Charles Evans Hughes, fu diagnosticato il diabete di tipo 1 all’età di undici anni. Era il 1918, al tempo l’aspettativa di vita in seguito alla diagnosi si aggirava intorno ai due anni. Prima di soffermarci sulla sua storia, spendiamo qualche parola sul diabete.

 

Per diabete, nello specifico diabete mellito, si fa riferimento a un gruppo di malattie del metabolismo che provocano un aumento sostanziale dei livelli di glucosio nel sangue. Sintomi acuti della malattia includono il coma e la morte, mentre tra le possibili complicazioni a lungo termine troviamo malattie cardiache e renali, ulcere alle estremità degli arti e danni agli occhi.

 

Come sopra accennato, il sintomo per eccellenza di questa malattia sono valori elevati di glicemia, da cui la desinenza ‘mellito’ (dal latino mellitus, dolce, mieloso) introdotta da Briton John Rolle nel 1675, per via del gusto dolciastro delle urine nelle persone affette. Fin qui tutto bene; in fondo se ci nutriamo è proprio nell’intento di aumentare i livelli di zuccheri in circolo. Il problema è che il glucosio ha bisogno di essere assorbito dalle cellule del nostro corpo per poter essere utilizzato. Questo non può avvenire se non in presenza di una proteina chiamata insulina. Tale proteina viene prodotta da alcune cellule specializzate situate nel pancreas chiamate cellule-β, dei potenti sensori in grado di rilevare una variazione della glicemia nel sangue. Nel caso di un aumento dei livelli di glucosio ematico, le cellule-β rispondono rilasciando in circolo più insulina, che potrà diffondere permettendo l’assorbimento del glucosio fino alle zone più periferiche del corpo.

 

Nei malati, tutto ciò non può avvenire, per due possibili ragioni. Nel diabete di tipo 1, anche chiamato ‘giovanile’, il corpo stesso distrugge le cellule-β; nel diabete di tipo 2, un difetto nel recettore per l’insulina impedisce a questa di esercitare il suo effetto sulle cellule e promuovere l’assorbimento del glucosio dal circolo sanguigno. Di conseguenza in entrambi i casi, in seguito all’incremento della glicemia (inevitabile dopo un pasto) il corpo non può beneficiare del glucosio prodotto, che allo stesso tempo provoca tutta una serie di altri danni colpendo per lo più reni, cervello e occhi. Sebbene entrambe le tipologie di diabete abbiano basi di predisposizione genetica, il secondo tipo è fortemento legato allo stile di vita dell’individuo.

 

L’incremento sostanziale delle diagnosi nelle ultime decadi in Italia e all’estero, specialmente diabete di tipo 2, è di dominio pubblico. Figura assieme a cancro e malattie cardiache tra i grandi mietitori di vite nell’era moderna. Quali sono i numeri? La media di incidenza nei Paesi in via di sviluppo si aggira intorno a un malato ogni trenta persone, nei Paesi sviluppati queste cifre triplicano. Il tasso di mortalità ha una distribuzione più eterogenea, legata a fattori di prevenzione, assistenza sanitaria e copertura farmacologica. Più di due milioni di morti sono conteggiati in media per ogni anno sull’intera popolazione mondiale. Le due ragioni per cui il tasso di diabete è in aumento sono senza dubbio il problema della sovralimentazione, che, per quanto prerogativa del ‘Primo mondo’, affligge anche i Paesi in via di sviluppo. La seconda è il semplice fatto che fino al 1922 (quando si iniziò a utilizzare l’insulina su pazienti umani) il numero netto dei malati stentava a salire, in quanto di diabete - semplicemente - si moriva.

 

La somministrazione di insulina, spesso in completa autonomia, è il trattamento utilizzato nei pazienti affetti da diabete 1; l’approccio principale per l’alleviamento dei sintomi in entrambi i tipi di diabetici è invece il cambiamento dello stile di vita e dell’alimentazione. A questo proposito, tornando a parlare di Elizabeth Hughes, la bambina fu sottoposta a una rigida dieta come previsto al tempo. All’età di dodici anni era alta un metro e cinquanta e pesava una ventina di chili, la malnutrizione stava iniziando a prendersi ciò che veniva sottratto alla malattia.

 

Allo stesso tempo nel laboratorio del Professor John Macleod, a Toronto, uno studente di nome Charles Best e il suo supervisore dott. Frederick Banting riuscivano nell’intento di trattare il diabete nel primo paziente al mondo: un beagle. Al cane in questione era stato asportato il pancreas, sulla falsariga di un esperimento dell’anteguerra del rumeno Nicolae Paulescu. Come già risaputo al tempo, il cane aveva sviluppato i sintomi del diabete non appena rimosso l’organo. La squadra di ricercatori produsse una rudimentale ‘spremuta di pancreas’, che venne somministrata per via endovenosa all’animale, ripristinando i normali livelli di glicemia. L’entusiasmo portò alla purificazione della prima dose di insulina della storia, che in barba al normale processo dei trials clinici, fu testata direttamente da Banting e Best su loro stessi per constatarne la non-tossicità.

 

Il trattamento era, per usare un eufemismo, ancora in fase embrionale, tuttavia come spesso succede quando si parla di cure miracolose, la voce si sparse a macchia d’olio. L’estate dello stesso anno Banting venne contattato dal Governatore Hughes che lo ‘convinse’ a prendere in cura sua figlia. La ragazza si trasferì a Toronto e fu una dei primi soggetti al Mondo a beneficiare della cura. Elizabeth visse fino alla veneranda età di settant’anni, dopo la bellezza di 40 mila iniezioni di insulina.

 

Solitamente tra scoperta e trattamento tende a trascorrere una decina di anni, mentre panacee e sacri Graal della medicina che fanno scalpore sono spesso fuochi di paglia di disonestà e disinformazione. La storia dell’insulina è l’eccezione alla regola e, se vogliamo, un cattivo esempio di condotta nell’ambito del processo biomedico. Studi condotti su numeri esigui di modelli animali portarono una sostanza prima di allora sconosciuta alla sperimentazione umana in un lasso di tempo estremamente breve. Quello che salva il gruppo di ricercatori dall’essere tacciati di ‘Vannonismo’ sono però il metodo e l’attendibilità dei loro risultati, che pochi anni dopo valsero il Nobel a Macleod e Banting.

 

Elizabeth fu una ragazza fortunata, grazie all’influenza del padre riuscì a entrare in possesso di una delle prime rare partite di quel rimedio miracoloso che il Mondo doveva ancora conoscere. Prima che l’insulina venisse prodotta su larga scala per soddisfare l’ingente e disperata domanda, dovette trascorrere più di una decade e un altro premio Nobel.

 

Cosa si è fatto da allora? Negli anni a ridosso di questi eventi, gli sforzi da parte della comunità scientifica si focalizzarono primariamente nell’incrementare la produzione e facilitare il recupero di insulina. Essa fu la prima proteina umana a essere sintetizzata chimicamente in laboratorio, dopo che Frederick Sanger ne pubblicò la struttura nel 1955, studio che portò al secondo Nobel nella storia del diabete. In questo ambito si assistette in seguito a uno dei grandi trionfi delle biotecnologie, che permisero di evitare il sacrificio di animali o l’utilizzo di processi petrolchimici per la sua produzione, andando invece a sfruttare microorganismi e tecniche di gene editing. In breve, nei batteri viene inserito un gene che permette loro di produrre insulina in grandi quantità. Ad oggi la quasi totalità dell’insulina è prodotta in fermentatori contenenti svariate migliaia di litri di brodo batterico.

 

Un secondo problema da affrontare affligge praticamente ogni farmaco. L’efficacia dello stesso è strettamente legata a fattori come predisposizione dell’individuo, attività all’interno del corpo, corretta modalità di somministrazione, modulazione e dosaggio. Il diabete come ogni malattia non è estraneo a queste limitazioni. Innumerevoli varianti sono entrate in commercio con differenti tempi di assorbimento e altri parametri che se elencati annoierebbero persino il più integerrimo dei farmacisti. Nell’ambito delle biotecnologie vi sono stati sviluppi interessanti nelle modalità di assunzione del farmaco. Un approccio interessante è quello proposto da un gruppo del Politecnico Federale di Zurigo nel 2014. Si basa su un impianto sottopelle contenente cellule ingegnerizzate per funzionare in modo simile alle native cellule-β. Esse sono in grado di percepire un aumento dell’acidità del sangue, dovuta nei diabetici a un fenomeno detto chetoacidosi, producendo e rilasciando insulina come risposta. Sistemi simili hanno il vantaggio di permettere un sofisticato controllo in tempo reale del dosaggio di farmaco, che viene circoscritto al momento di reale necessità, riducendo al minimo gli effetti collaterali. Prima che tali pratiche entrino nella routine medica ci sarà ancora da aspettare, ma nell’attesa un po’ di entusiasmo non può certo nuocere.

 

Non sempre conclusive sono, tuttavia, le analisi eseguite da enti esterni per determinare qualora alcune delle versioni di insulina in commercio siano effettivamente migliori di quelle precedenti. Questo riflette un problema non indifferente nell’ambito dei brevetti farmaceutici, per cui minime modifiche vengono periodicamente apportate ai principi attivi allo scopo di bypassare la scadenza del brevetto. Tutto ciò è in alcuni casi giustificato, specialmente nell’ambito dei biofarmaci in generale, dal momento che gli investimenti necessari a portare sul mercato un farmaco nuovo si aggirano intorno al miliardo di dollari. Anche solo dopo due o tre trials clinici andati male una multinazionale può dichiarare la bancarotta. Inoltre gli stessi trials clinici richiedono come minimo una decina di anni, a fronte di una durata del brevetto di venti anni. Per questo le aziende cercano di ‘tenersi stretti’ i frutti del loro lavoro, modificandoli gradualmente mano a mano che i brevetti raggiungono la loro scadenza. Questo non fu il caso dell’insulina, in cui la prima manifattura su larga scala (Eli Lily and co.) si limitò a utilizzare il frutto di ricerche condotte altrove. La stessa azienda oggi è responsabile di un incremento sostanziale dei prezzi dell’insulina che, come detto sopra, trova poco riscontro in effettivi miglioramenti del farmaco e che sta danneggiando ulteriormente la reputazione del settore.

 

È inoltre opportuno precisare come si abbia impropriamente definito l’insulina come ‘cura’ o ‘rimedio’ all’interno di questo articolo, tuttavia è importante tenere a mente che di cura non si tratta, bensì di un trattamento efficace per minimizzare i sintomi della malattia. Con quest’ultima considerazione non si vuole condannare nessuno, ma fare presente come, prima di giungere a un rimedio definitivo che metta fine a questo capitolo nella storia della medicina, sia necessaria ulteriore ricerca, nonché un cambiamento del paradigma ‘Treat and keep’ che elimini la dipendenza cronica e periodica del paziente dal farmaco.

 

(Davide Visintainer)

 

Alcune fonti principali:

 

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