Meglio disertare dalla vita che fare una guerra putrida, il libro ''La paura'' con il film torneranno i prati per i ''Racconti stonati, ma non troppo…al tempo del coronavirus''
Socialista dal 17° anno d'età, continua a dedicarsi allo studio del pensiero progressista e democratico
Da tempo dovevo vedere quel film, conservato devotamente nella apposita custodia. Al tempo del coronavirus 2020 quel tempo giunse, eccome. E fu toccante. Il film è di Ermanno Olmi, torneranno i prati, col titolo scritto volutamente in minuscolo, perché ci vuole misura, anzi "pudore per raccontare una guerra senza senso", spiega la recensione di Paola Casella su “MyMovies”. La guerra è quella condotta in montagna tra il 1915 e 1918: qui riguarda un manipolo di militari italiani che, fra vicinissime trincee contrapposte, contende brani di roccia e terreno ai nemici austroungarici. Di mezzo c’è un cecchino di quest’ultimi, il quale fa sistematicamente strage degli avversari che si affacciano per compiere una meschina azione scriteriata ordinata dal comando centrale italiano. È questa la guerra eroica decantata dalla propaganda patriottica? Quei militari – osserva Casella – "restano attoniti davanti all’orrore dell’inganno in cui sono caduti per aver creduto nell’amor di patria" o almeno "nel dovere del cittadino italiano". Ad un tratto lo svolgimento del film mi fa ritornare alla mente un racconto letto qualche anno prima, La paura di Federico De Roberto. È quando un nostro soldato si rifiuta di gettarsi in quell’insulsa azione suicida e piuttosto si spara un colpo mortale puntandosi lo schioppo sotto il mento.
Rieccomi allora con quel libro fra le mani, riedito nel 2014 dalle Edizioni e/o. E mi accorgo che Olmi per la trama del film si è proprio ispirato a quello stringato racconto, pubblicato nel 1921: che scorre per ottanta minuti e risulta davvero ammirevole nel rappresentarci i ripetuti movimenti quotidiani di quei soldati, che condurranno ad esiti tragici, "una ballata malinconica – annota ancora Casella – perfettamente centrata nel cuore di tenebra di una trincea".
Ma mi serviva il libro per cogliere di più e meglio il significato di quel suicidio. E così capisco che quel "bel giovane, alto, forte, animoso" non è un vile, ma – come scrive nell’introduzione Antonio Di Grado – è "un eroe vero che, al cospetto dell’orrore, preferisce disertare dalla vita". Egli è stato un prode soldato, con tanto di medaglie al merito, ma qui – anziché dover combattere in campo aperto, magari anche incorrendo in una 'bella' morte – vedersi costretto ad un’azione insana alla completa mercé dell’orrida mano del cecchino nemico, lo rende folle di inquietudine e paura. Non teme però di esibire quel terrore di fronte ai camerati e ai graduati, ai quali lascia il suo testamento scritto col sangue: "…e trasse il colpo che fece schizzare il cervello contro i sacchi del parapetto". Altro che disertore. Invece, una drastica e definitiva protesta, che quando non si può esercitare con le parole e col ragionamento, tanti valorosi suicidi scelgono di palesare col sacrificio della propria vita.
Il terrore, la rabbia, il ruggito finale di quel soldato sono anche gli stati d’animo dell’autore, quel Federico De Roberto che con il grande libro I Viceré aveva descritto sul finire del 1800 il decadimento della nobiltà meridionale e la precarietà morale del nuovo stato unitario italiano post 1860. Ma termina la sua vita letteraria e terrena, con questo racconto, il suo "canto del cigno – segnala ancora Di Grado – con la denuncia implacabile degli orrori di una guerra" che altri intellettuali e politici fanno invece "oggetto di fredde disamine o peggio di una compiaciuta aneddotica".
Con questa cruda rappresentazione della morte in guerra, De Roberto intende lasciare una traccia rimarchevole tra tutte le memorialistiche, come Ermanno Olmi nel 2014 chiude la sua opera di regista, e poco dopo anche la sua vita, con torneranno i prati, un omaggio a suo padre – combattente della Prima guerra mondiale – che l’aveva esortato a ricordare il sacrificio della sua generazione. Olmi risponde a questa invocazione con la sua opera ultima, che nel contenuto e nel titolo non ha alcun significato bucolico, niente affatto. Non è la speranza di ripristinare monti e colli verdeggianti quella che emerge.
Piuttosto insorge un desolato timore, che Olmi fa così esprimere ad un soldato sopravvissuto: quando, sopra le macerie delle trincee e sugli sconvolgimenti del terreno torneranno i prati, "di quel che è stato qui non si vedrà più niente, e quello che abbiamo patito non sembrerà più vero". Ma forse De Roberto e Olmi sono riusciti a rendere meno reale quel timore di oscurità, di definitivo oblio. Anche noi faremo la nostra piccolissima parte.