La democrazia come violenza, detestavano “la libertà individuale come si detesta un nemico personale”
Socialista dal 17° anno d'età, continua a dedicarsi allo studio del pensiero progressista e democratico
Non desta attrattiva l’anonimo autore di questo opuscolo, giunto a noi tra le carte di Senofonte con il titolo di Athenaion Politeia. Luciano Canfora, curatore e commentatore della pubblicazione a Sellerio, ne fa risalire l’origine agli anni venti del quinto secolo avanti Cristo. L’autore sarebbe un esule, un aristocratico cacciato o fuggito dall’Atene “democratica”, un émigré deluso “la cui unica ragion d’essere - avrebbe potuto spiegare Demostene - è di sconfiggere chi lo ha scacciato, per cui deve tessere, spesso vanamente, una trama politica per tutta la vita”.
Di rado tuttavia - ricorda Canfora - l’esule rimette piede in città da vincitore, ma in tal caso la sua prima cura è quella di provocare nuovi esuli, nuovi perseguitati. Dunque, la spada riconquistata dalle sue mani non avrà uso migliore di quella strappata dalle mani dei precedenti persecutori... come tutte le armi dei fanatici e dottrinari d’ogni tempo che si sentono portatori di una verità dirompente e totalizzante. D’altra parte, anche fra i più moderati la prassi politica è quella di “bastonare e fare a pezzi gli avversari” (Demostene, 8.61, 9.61, 10.63).
Ciò premesso, l’opuscolo in menzione richiama una critica di spessore duraturo alla democrazia radicale del quinto secolo e per estensione a tutte le esperienze similari successive. Si sarebbe tentati di non offrire alcun credito a tale critica perché promana da una visione biecamente antidemocratica, secondo la quale “il demo non può e non deve governare perché non è capace: è incolto, rozzo, ignorante, volubile, istintivo, dunque non ha la capacità di reggere la cosa pubblica”.
Epperò la demokratia con cui questi oligarchi si confrontano è altrettanto terrificante. E’ una democrazia che sopprime il valore della persona e che instaura un regime collettivo in cui, come dirà Benjamin Constant, “l’oppressione della politica sull’esistenza dei singoli è totale”. Questa demokratia si installa sulle teste degli individui, per controllarli e reprimerli. Così Atenagora, leader democratico siracusano, potrà - ad esempio - propugnare non solo la caccia ai reati degli avversari “ma addirittura senz’altro nei confronti delle mere opinioni” con la scusa di prevenire e punire gli oppositori e gli indocili, non tanto per le loro azioni bensì per ciò che “vorrebbero fare, ma non sono in grado”.
E’ l’anticipazione spettrale di tutte le “leggi sui sospetti” che infesteranno la storia delle “democrazie popolari”. E non certo a caso Luciano Canfora - in sede di commento - tratterà ampiamente della versione giacobina della democrazia: una dittatura del popolo (o meglio, in nome del popolo), in forza della quale il popolo è al di sopra della legge e quest’ultima - assieme alle garanzie giuridiche - può essere anche sospesa se ciò “giova al popolo”.
L’esempio degli antichi era stato fatale per i moderni: così - avvertirà Tocqueville nell’Ancien régime et la Révolution - l’amore per la libertà conquistata si attenuerà e sorgerà “dalle stesse viscere della nazione, che aveva testé abbattuto la monarchia, un potere più esteso, più capillare, più assoluto di quello che fosse mai stato detenuto da alcuno dei nostri re”. Il dottrinarismo giacobino, in adorazione della “volontà popolare” della maggioranza - trasformata nella volontà generale di russoviana memoria - finirà per sopprimere la libertà individuale. Scriverà il Constant, che per costoro tutti i mezzi apparivano buoni per estendere l’autorità collettiva su quella parte recalcitrante dell’esistenza umana, di cui deploravano l’indipendenza. Avrebbero voluto controllare non solo le azioni degli uomini ma anche i pensieri, le impressioni più fuggevoli, senza lasciar loro un asilo dove ripararsi dal potere. Detestavano “la libertà individuale come si detesta un nemico personale”.
Benjamin Constant è qui ripetutamente citato perché con la sua opera fondamentale De la libertè des anciens comparée à celle des modernes (1819) raffronterà appunto la demokratia antica, e le sue derive illiberali successive, con le moderne esigenze di una democrazia costituzionale che riconosca e garantisca i diritti dei singoli cittadini, frazionando e limitando la sovranità del potere costituito, a tutela dell’autonomia personale. Altre strade, vanamente “liberatrici” e “popolari”, hanno generato nell’antichità e nell’era contemporanea “il massimo di limitazione delle libertà individuali, il massimo di oppressione del dissenso ideale e politico”.