Dieci anni fa scompariva Beniamino Andreatta, dal progetto europeista a quello Autonomista quanto ci manca la sua "bussola"
Eletto presidente della Provincia di Trento per la prima volta nel 1999 resta in carica fino al 2012 quando si dimette per entrare poi alla camera dei deputati con la lista Scelta Civica nel 2013
Il 26 marzo di dieci anni fa moriva Beniamino Andreatta. Nove anni prima era stato colto da un malore nell'aula della Camera e non si era più ripreso. La famiglia lo ha assistito in maniera esemplare fino alla fine. Ora riposa nel cimitero di Trento. Il senatore Fravezzi e io, come parlamentari trentini che si ispirano - o meglio, cercano di ispirarsi in questo tempo strano - alla stessa cultura politica e alla esperienza di figure come quella di Andreatta, abbiamo pensato fosse doveroso proporre un momento di ricordo (avvenuto ieri a Villa Sant'Ignazio e tra i tanti presenti anche il sindaco di Trento ed il pro Rettore Deflorian, in rappresentanza del rettore Collini)
Non è priva di significato una coincidenza che tutti credo abbiamo colto. Ricordiamo i dieci anni dalla scomparsa di Andreatta nel giorno delle celebrazioni per i sessant'anni dal Trattato di Roma, mentre i Capi di Stato e di Governo cercano di riannodare le fila del disegno europeista. Venerdì a Roma è stato presentato, con una prolusione di Giuliano Amato, il libro dell'Arel curato da Enrico Letta e Maria Antonietta Colimberti dal titolo "L'Europa di Andreatta". Raccoglie i suoi scritti e i suoi discorsi in tema di Europa.
Rileggere queste pagine nel pieno della crisi europea del nostro tempo rende pienamente l'idea di una straordinaria capacità di profezia. Non c'è traccia di retorica in questi testi; e neppure di cedimenti romantici. C'è invece, chiaramente marcata, una pista di realismo illuminato; di visione; di "utopia tecnicamente fondata", come ebbe a dire una volta a proposito dei progetti kessleriani sul Trentino della seconda autonomia. Ne emerge il profilo di uno statista europeista per DNA, coerente interprete della tradizione cristiano sociale di Degasperi, Schuman e Adenauer e nel contempo pienamente in sintonia con le spinte in avanti di Altiero Spinelli. Questa coincidenza temporale tra il decennale della sua morte e le celebrazioni per il Trattato di Roma - dunque - è uno stimolo in più per non cedere neppure un millimetro difronte al vento freddo che spira forte contro l'idea europeista.
Nessuna pur legittima critica alle scelte compiute dai Governi Europei o dalle strutture comunitarie in questi ultimi tempi può essere utilizzata come arma impropria contro il progetto europeista. Di fronte ai rigurgiti nazionalisti e alle follie anti euro dei sovranisti, non servono posizioni moderate, ammiccanti, timorose se non equivoche. Dalla testimonianza di Nino Andreatta si possono tirar fuori tutta l'energia e gli argomenti per dire forte e chiaro che questa strada sarebbe una follia; che porterebbe ad una sciagura inimmaginabile. Vi sono quattro immagini che riassumono questa convinzione andreattiana.
L'Europa nostro Paese: le radici comuni, condivise da Atene in poi, rafforzati dalla cultura cristiana in fecondo dialogo con le altre sensibilità religiose e laiche, sono più forti delle divisioni prodotte dalle vicende storiche, anche travagliate.
L'Europa nostra ricchezza: era vero nell'immediato dopoguerra, era vero al tempo del primo mercato comune e delle prime misure di allineamento delle politiche monetarie, è vero ancor di più oggi, nel tempo della competizione globale che rende fragili ed esposte a rischi tremendi anche i sistemi nazionali più solidi. Le politiche di rigore degli ultimi anni hanno impoverito i ceti medi e popolari, è vero; ma fuori dalla solidarietà europea rimarrebbe solo una strada di declino inesorabile di proporzioni inaudite.
L'Europa nostra difesa: la Comunità di Difesa fortemente voluta da Degasperi e invece stroncata nel '52 dai francesi rimane un obiettivo oggi ancora più importante. Non c'è sicurezza senza integrazione europea degli apparati militari, ma più ancora degli apparati di intelligence e di comune presenza negli scenari di crisi.
Infine, l'Europa nostro futuro: nostra unica ancora di salvezza di fronte al mutamento radicale e a tutt'oggi largamente imprevedibile dei paradigmi sociali, economici e strategici a livello mondiale. E anche di fronte ai mutamenti antropologici che richiedono un surplus di cultura ancorata ai valori fondanti dell'Europa.
Questo ancoraggio e questo respiro europeo sono lo stimolo più importante che in questo tempo Andreatta ci trasmette. Ma assieme, possiamo riflettere anche su altri aspetti della sua testimonianza, altrettanto preziosi. Per esempio sul valore e sul profilo del servizio politico. Se oggi Andreatta fosse tra noi ci aiuterebbe non poco nel tenere la barra dritta secondo un principio di responsabilità; a non lisciare il pelo al populismo; a capire che l'alternativa non può essere una comoda versione mite del populismo. Ci aiuterebbe ad essere consapevoli che esso è frutto del sonno della buona politica, così come i mostri sono il frutto del sonno della ragione nel dipinto di Goya. La crisi della democrazia rappresentativa - ci ricorderebbe - non si supera demolendone i fondamenti, ma ricostruendo con serietà e coraggio un rapporto di fiducia con la comunità e ridando una cifra di dignità alla politica e alla vita delle istituzioni.
Aveva ragione qualche settimana fa Angelo Panebianco in un suo articolo sul Corriere della Sera: l'avanzata populista e antisistema in Italia si basa sul fatto che i partiti e le istituzioni, con le loro incertezze e i loro cedimenti, con la debolezza della difesa dei principi democratici e anche dei simboli della democrazia, lavorano in realtà a precostituire un terreno fertile per questa deriva. Basta accettare la demonizzazione dei politici, delle loro giuste prerogative di autonomia rispetto alla magistratura, delle forme della rappresentanza, che devono mutare ma non possono essere sostituite dai nuovi sciamani del rapporto diretto tra leader mediatico e singoli individui, al di fuori di ogni misura di mediazione comunitaria. E basta guardare con tolleranza alle manifestazioni offensive della dignità delle istituzioni, che sono la garanzia democratica di tutti, anche dei cittadini del futuro.
Mentre a Londra un terrorista sparava sul Parlamento inglese, un gruppo di deputati grillini inscenava una scandalosa irruzione nella sala dove era riunito l'Ufficio di Presidenza della Camera, per protestare contro i cosiddetti vitalizi, peraltro aboliti ancora nel 2012. Una forma di squadrismo ovviamente non armata, ma non meno devastante per il futuro della democrazia rappresentativa, l'unica almeno fino ad ora conosciuta nel nostro tempo. Penso che Andreatta ci aiuterebbe anche a non barattare il futuro del Paese in cambio di una presunta speranza di consenso nel breve periodo. E il terreno dell'Europa, anche qui, rimane centrale: bene lavorare per un aggiornamento delle regole e riflettere sulla insufficienza delle misure fino ad ora adottate, sopratutto per quanto riguarda gli investimenti, ma attenzione a definire ogni vincolo europeo come una minaccia lesiva della sovranità nazionale con la malcelata aspirazione a tornare ad una politica finanziaria dissipatrice e irresponsabile.
C'è un altro aspetto che vorrei citare. Andreatta è stato una sintesi vivente e credibile tra le culture cattolico-popolare e liberal democratica. Esse sono state una delle architravi sulle quali si è costruita la democrazia in Italia, da Degasperi e Einaudi in poi. Se ne sente fortemente la mancanza. Si avvertono oggi gli effetti della loro diaspora. Forse, magari non nel breve tempo - ancora marcato dai segni e dai protagonismi della cosiddetta seconda repubblica - ma in un tempo non troppo lontano, una riflessione in questo senso dovremo pur farla. Perché una politica senza infrastrutture di cultura e di pensiero resta fragile e rischia di avvitarsi - rincorrendo un presente senza passato e senza futuro - nella mitologia del "post".
In questo quadro, non possiamo non ricordare Nino Andreatta anche come partner fondamentale di Bruno Kessler e della intera classe dirigente che ha dato solide e lungimiranti fondamenta alla nostra Autonomia. Ne abbiamo parlato più volte. E tutti sappiamo a cosa ci riferiamo dicendo questo. Anche quassù abbiamo bisogno di ritrovare una bussola: perché le sfide culturali e non solo strutturali e istituzionali per l'Autonomia sono tutt'altro che ordinarie. Dobbiamo preparare il cosiddetto Terzo Statuto. Prima che di congetture giuridiche - sopratutto dopo l'esito del Referendum del 4 dicembre - abbiamo bisogno di un progetto culturale, di valori ritrovati e condivisi, di visone.
Dobbiamo contare sui giovani, figli dei grandi investimenti in conoscenza dell'Autonomia, ma anche sul magistero dei profeti della visione di lungo periodo che abbiamo avuto la fortuna di incontrare nella nostra storia recente. Tre di essi, come mi ricordava in questi giorni Giampaolo Andreatta, ci hanno lasciato proprio durante marzo. Nino Andreatta, appunto; ma anche Bruno Kessler e Chiara Lubich. E andando oltre la simbologia del mese, ricordiamo Paolo Prodi e mons Iginio Rogger.
E' dovere di tutti riscoprire la trama comune che ha legato queste diverse profezie trentine e tante altre ancora, sia nella politica che nella cultura e nella vita sociale. Esse hanno concorso a costruire un codice genetico della nostra comunità, in simbiosi con la comunità sorella di Bolzano e con un respiro europeo e mondiale.
Solo attorno a questa trama noi possiamo ritrovare quella bussola - anche politica, ma non solo politica, direi etica se non spirituale - della quale sentiamo grande bisogno per ritrovare il sentiero.