Referendum, anche la politica trentina deve ascoltare e riformarsi
L'associazione si pone l'intento di realizzare un circuito virtuoso tra un partito esistente, il PD, strumento politico (pur con tutti i suoi limiti) e quanti siano disposti a fornire il proprio contributo in maniera non episodica o casuale
Nessuno può negare che l’esito del referendum sulla riforma costituzionale abbia profondi significati politici. Una campagna referendaria che, cominciata più di un anno fa, metteva in gioco la stessa sopravvivenza del Governo, artefice della riforma, e il destino del suo leader, non poteva non avere come esito un confronto giocato quasi esclusivamente su ragioni, contenuti, valutazioni di natura politica.
E il risultato è chiaro: la netta maggioranza degli elettori italiani, affossando la proposta di riforma, ha inteso esprimere un chiaro dissenso rispetto all'azione del Governo, allo stile del suo leader, all'operazione politica che intorno alla sua figura si era modellata. I dati elettorali non ammettono molti alibi: lo stesso Renzi, in modo chiaro e apparentemente incontrovertibile, ha preso immediatamente atto dell’impossibilità di rimanere nel suo ruolo, di fronte ad una così sonora bocciatura.
La sconfitta dello schieramento del Sì non è certo la Brexit e non avrà le stesse ripercussioni della vittoria di Donald Trump negli Stati Uniti, così come non è corretto ridurre il 60% del No a un indistinto voto di pancia, antisistema e alimentato da un rozzo populismo, perché così non è.
Ma di certo è un segnale – l’ennesimo – che anche nel nostro Paese il processo riformista non è una strada sicura e che, ormai in modo stabile, un’ampia fetta di elettorato ha deciso che la chiamata alle urne può e deve diventare un’occasione per esprimere una forte protesta contro il cosiddetto establishment, unendo l’avversione contro la “casta” a quella contro i “poteri forti”, identificati come parimenti responsabili della crisi economica che incide sulla vita materiale di fasce sempre più vaste di popolazione.
La sensazione è di un voto dove hanno prevalso le ragioni e le paure di chi si sente “periferico”: una periferia che non è solo una nozione geografica, ma sempre più un concetto sociale, che ha a che fare con l’essere dentro o l’essere fuori dai processi, col sentirsi o meno parte della componente vincente della società all’interno di un sistema sempre più competitivo, globale e interdipendente. Non è un caso che questo sentimento di protesta il più della volte includa una tendenza isolazionista, spesso ostile ai fenomeni migratori e quasi sempre avversa al processo di integrazione europea.
La politica, quella “buona”, non può certo limitarsi a prendere atto di questi trend, quasi fossero fenomeni naturali e non le conseguenze di un disimpegno politico, di un costante allontanarsi da quei luoghi della società che, in assenza di rappresentanza, non ascoltati (o male ascoltati) e privi di solidi punti di riferimento, si sono alimentati di paura e rancore.
In tanti hanno pensato che in Trentino ci fossero le condizioni per arginare quest’onda. Ci risvegliamo consapevoli che non è così: il risultato del Sì, infatti, è sostanzialmente in linea con quello del Nord Italia, e nemmeno a Trento, capitale dell’Autonomia, il fronte del Sì prevale.
Quel differenziale positivo che si pensava di trovare, quasi fosse scontato, nella difesa dell’Autonomia contro gli attacchi centralisti – lo stesso che ha fatto prevalere in modo schiacciante il Sì in Sudtirolo – in Trentino ci rendiamo conto non esistere, o non essere comunque determinante.
E nell’analisi del voto di Trento – contesto qualitativamente e quantitativamente in grado di far emergere delle tendenze – capiamo che quel voto di protesta emerge tanto più forte nelle “periferie” di cui sopra, che a volte coincidono davvero con i margini della città ma che spesso sono interstizi di fragilità nel tessuto urbano. Lo scarto tra i Sì in un seggio del centro storico o della collina est e quelli in una sezione di Gardolo arrivano a superare i 20 punti percentuali: c’è un abisso che, per troppo tempo, nessuno si è nemmeno preoccupato di guardare.
Sarebbe presuntuoso pensare di avere oggi le risposte giuste a questi problemi. Ma, almeno in parte, i segnali di speranza che arrivano dall’Austria ci fanno pensare che due cose vanno sicuramente messe in campo, se non vogliamo assistere anche in Trentino ad una inesorabile ascesa delle tendenze isolazioniste e populiste: innanzitutto, ritornare ad ascoltare, capire e dare risposte alle preoccupazioni dei tanti cittadini che si sentono sempre più outsider, vittime di una globalizzazione che ritengono scarichi i suoi costi su di loro e concentri i benefici su pochi; in seconda battuta, riformare il quadro politico, pescando il meglio che la società ancora esprime, rinnovando (non tanto anagraficamente, come insegna il maturo Van der Bellen) la classe dirigente, ricostruendo una prassi e un lessico adeguato ai tempi e alle aspettative delle nostre comunità.