Iva dal 22% al 25,2% e quella agevolata dal 10% al 13%: ecco cosa cambia per tutti se non si trovano 23 miliardi di euro
CheckPoint analizza l’operato dell’esecutivo
“It’s the economy, stupid”, recitava il famoso slogan creato da James Carville per la vincente campagna elettorale di Bill Clinton. E l’economia è infatti ancora oggi la cartina di tornasole del consenso di chi governa, in America, dove vola, e in Italia, dove ristagna. I successi o gli insuccessi economici determinano inevitabilmente la popolarità di un esecutivo, tutto il resto tende a venire in subordine.
Qui da noi la spada di Damocle che pende sul governo, più che dai litigi interni alla maggioranza, ormai parte in commedia e non più novità, più che dall’immigrazione e pure più delle elezioni europee è al momento rappresentata dall’Iva. Dopo la manovra in deficit dello scorso anno, con la quale, dopo molte difficoltà, l’esecutivo guidato da Giuseppe Conte ha stanziato miliardi per alcune delle misure simbolo dei due azionisti di governo, la legge di bilancio 2019 sembra ancora più complicata. Il nodo maggiore al momento è rappresentato dal rischio di aumento dell’Iva. Se il governo non troverà i 23 miliardi di euro necessari a neutralizzare le clausole di salvaguardia, scatterà automaticamente l’aumento dell’aliquota.
L’Iva, imposta sul valore aggiunto, si applica a tutti i beni e ha tre fasce. Al 22% per la maggior parte delle cose che compriamo tutti i giorni, al 10% per gas e luce a uso domestico, e al 4% su beni di prima necessità. Se dal primo gennaio 2020 aumento sarà, l’Iva di prima fascia passerà dal 22% al 25,2%, e quella agevolata di seconda dal 10% al 13%, mentre quella di terza fascia resterà bloccata al 4%. Uno scenario del genere, secondo le previsioni, causerebbe un rincaro per le famiglie italiane fra i 538 e i 900 euro, con picchi fino a 1200 euro in alcune parti del paese.
Il ministro dell’Economia Giovanni Tria, nella nota di aggiornamento del Def (Documento di Economia e Finanza), presentata ad aprile, ha messo nero su bianco questo aumento per l’anno prossimo, insieme a quello delle accise sui carburanti. Per il 2021, invece, è previsto che l’Iva ordinaria salga fino al 26,5%.
I membri più alti in grado del governo si sono subito affrettati a smentire questa previsione. Il vicepremier Di Maio, il primo maggio, ha promesso che l’aumento non ci sarà. “Il rischio che aumenti l'Iva l'abbiamo disinnescato nel 2018 e lo faremo anche nel 2019”. La promessa, come abbiamo confermato anche noi di CheckPoint, è stata rispettata in toto. Di Maio ha spiegato anche che quest’anno la situazione è un po’ diversa e che “Tria dice che se non facciamo niente, aumenta l’Iva”. Ma questo sembra fuori discussione. Per un governo che nei suoi proclami ha promesso in molti modi di tagliare le tasse da una parte, e di mettere più soldi nelle tasche dei bisognosi dall’altra, sarebbe senza dubbio una sconfitta non da poco.
Cosa comporterebbe, in ogni caso, questo aumento per gli italiani? Se l’Iva sale in alcuni casi aumenta il prezzo del bene a cui è applicata, se invece se ne fa carico l’azienda produttrice il prezzo non cambia, ma questa riduce il proprio margine di guadagno e quindi la propria capacità di reinvestire. Secondo l’Istat un aumento dell’Iva potrebbe portare una contrazione dei consumi dello 0,2% annuo. Meno ottimista è invece Confcommercio che calcola un calo fra lo 0,7 e lo 0,8%, se l’Iva aumenterà davvero.
Se dopo l'esito di domenica delle elezioni europee il governo resisterà sarà interessante la partita sulla legge di bilancio. Chi governa, per non sforare il rapporto deficit/Pil ed evitare l’aumento dell’Iva, dovrà trovare nuove entrate con nuove tasse o tagliare alcune spese. Forse entrambe. Allora si vedranno le priorità del governo, e se la sopravvivenza sarà una di quelle.