Chi non potrà mai più partire: il racconto dei bambini siriani lasciati senza cure mediche in Libano
Per saperne di più su di noi, vienici a trovare nel nostro sito http://www.centroastallitrento.it/
di Angela Tognolini
Siamo alla terza settimana del nostro Blog, alla terza testimonianza di chi lavora con i profughi siriani in Libano e con i Corridoi Umanitari che portano alcuni di loro in Italia, verso una nuova vita. Questo tema così importante è uno di quelli che affronteremo durante la nostra assemblea sociale che si terrà il 24 maggio a Trento.
La settimana scorsa avete letto dell’esperienza di Eleonora, operatrice del Centro Astalli Trento che ha viaggiato fino in Libano per conoscere e accompagnare in Trentino una famiglia che sarebbe stata poi accolta dall’associazione. Questa settimana il tema è più triste ma altrettanto necessario, perché Michela Lovato, volontaria dell’associazione Operazione Colomba, parla di quelle famiglie che non hanno neanche più la speranza di arrivare insieme in Italia, perché in Libano hanno perso i loro cari.
Oltre alla guerra e alle violenze sofferte in Siria, infatti, i profughi in Libano soffrono di terribili condizioni sanitarie. Le cure sono a pagamento, i siriani sono abbandonati a loro stessi e anche le malattie più comuni possono portare alla morte, soprattutto per i più piccoli. Proprio per questo le famiglie selezionate per i Corridoi Umanitari sono spesso quelle che hanno più figli, o situazioni sanitarie difficili che non potrebbero essere trattate in Libano.
Anche stavolta, se volete accedere al testo completo, potete trovarlo sul sito di Operazione Colomba.
LA TESTIMONIANZA
di Michela Lovato
Oggi io, Paola, Inès e Valerio siamo andati a Bebnin a incontrare una famiglia di cui un amico siriano ci aveva scritto la settimana prima, chiedendoci di incontrarli per conoscerli e capire se avevano bisogno di qualcosa.
Avevamo scritto il loro nome nella lista delle visite da fare, con il pensiero che con il tempo saremo riusciti a incontrare tutti malgrado i mille impegni e la frenesia di certe giornate al campo. Purtroppo, dopo qualche giorno da quella segnalazione è morto il loro figlio più piccolo.
Entriamo in casa e l’atmosfera è pesante. La mamma si asciuga gli occhi continuamente. È molto bella, ha le lentiggini e il viso giovane. Il padre è inginocchiato sul pavimento e guarda fisso per terra. Il bimbo, che aveva sette mesi, è morto all’ospedale governativo di Tripoli. La madre ci racconta che vomitava e aveva la diarrea ma non c’erano soldi per le medicine. Dopo un paio di giorni che non mangiava e stava male, si sono fatti prestare la somma per pagare un taxi che li accompagnasse all’ospedale Kheyr, ma lì non hanno ammesso il bambino perché loro non potevano pagare per il ricovero. Sono andati in un altro ospedale ma anche lì non hanno accettato di curarlo.
“Lo vedevamo morire e non potevo fare nulla” dice piano la mamma. A Tripoli, in un terzo ospedale, li hanno fatti aspettare a lungo. Il padre ci racconta che ha tenuto il bimbo in braccio per ore, mentre vomitava e piangeva, aspettando che arrivasse qualcuno nell’ufficio dell’Onu che era chiuso, non si sa perché. Alla fine, hanno ammesso il piccolo, che il mattino dopo è morto. Ci dicono che, una volta in ospedale, non hanno comunque voluto curarlo, perché sapevano che la famiglia non avrebbe avuto i soldi per pagare. Io non voglio crederci.
O. è morto a causa della diarrea, il suo corpo era così piccolo che si è disidratato in fretta. La mamma ci dice che ci aspettava da tanto, noi volontari di Operazione Colomba. Non lo dice in tono di accusa ma una parte di me pensa che forse dovrebbe. Probabilmente, se fossimo andati prima da loro avremmo potuto fare qualcosa, solo la settimana scorsa c’erano dei medici italiani con noi. Probabilmente, se avessimo saputo quanto era importante incontrarli, non avremmo lasciato indietro quell’impegno. Probabilmente, se li avessimo accompagnati noi in ospedale, avrebbero ammesso subito il bimbo e probabilmente sarebbe bastata una flebo e O. sarebbe ancora vivo.
Non ci sarebbe quel senso di male denso nell’aria e potremmo dire che almeno questa storia, in mezzo a tutto questo schifo, è finita bene. Potremmo guardarlo mentre gioca e non solo attraverso le foto nel telefono della madre, che quando compaiono sullo sfondo, la sorellina le vede e piange.
Solo che qui i “probabilmente” non servono a niente, fanno male e basta, si aggiungono al peso che già c’è. E poi si rischia di cadere nel cerchio dei “probabilmente” e si inizia a dire che probabilmente questo non sarebbe successo se ci fosse un medico attento o un sistema giusto, una politica sana che si prende cura delle persone, una rete sociale accogliente che si mette in ascolto, una politica internazionale efficace che riconosce i diritti umani, un’opinione pubblica che davvero si interessa all’altro, ovunque egli sia e qualsiasi cosa stia facendo. Così, con i “probabilmente” non si finisce più. Se cado in quel cerchio va a finire che mi perdo e mi dimentico che il mondo non è come vorrei.
E qui non c’è tempo per i probabilmente. Qui bisogna esserci e basta.