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Arrestati come clandestini: il dolore di una famiglia costretta a parlare attraverso una porta blindata

Un giorno arriva la telefonata. Hanno messo A. in prigione, deve scontare un mese di carcere e pagare 100 dollari di multa. L’accusa è il possesso di documenti non validi
DAL BLOG
Di Centro Astalli Trento - 04 June 2019

Per saperne di più su di noi, vienici a trovare nel nostro sito http://www.centroastallitrento.it/

di Angela Tognolini

 

Dopo avervi parlato dell’arrivo in Italia e della richiesta dei documenti dei profughi siriani accolti dal Centro Astalli Trento attraverso i Corridoi Umanitari, vi portiamo nuovamente in Libano. Avete già letto delle condizioni nei campi profughi, dove tanti bambini muoiono per assenza di cure, ma le malattie non sono l’unico pericolo per i siriani in Libano. Un rischio forse ancora peggiore è quello degli arresti sommari.

 

La tensione nel paese è cresciuta di anno in anno dallo scoppio della guerra in Siria. Il partito al potere in Libano appoggia il dittatore Assad e guarda con sospetto ai profughi siriani, accusati di essere nemici del regime solo per il fatto di aver abbandonato il paese piagato dalla guerra o per essere sfuggiti alla leva obbligatoria. I profughi siriani in Libano rischiano ogni giorno di essere arrestati e detenuti senza alcun motivo da una polizia potente e priva di controllo, e molti non tornano più a casa.

 

In questa testimonianza Matteo Chiani, volontario di Operazione Colomba, racconta proprio la storia di uno di questi arresti. Ancora una volta, trovate la versione completa e non editata di questa testimonianza sul sito di Operazione Colomba.

 

LA TESTIMONIANZA

di Matteo Chiani

 

La coppia è originaria di Manbij, città nel nord della Siria, ma si sono conosciuti e sposati a Damasco dove lui lavorava come decoratore. U. ci fa vedere delle foto di quel tempo. Sembrano reperti archeologici di antiche opere d’arte, per quanto son belle.

 

Quando è scoppiata la guerra, hanno lasciato Damasco per tornare dai parenti al nord, pensando che laggiù sarebbero stati più al sicuro. Si sbagliavano: non esiste un posto sicuro in Siria. Nel 2016 la città in cui vivevano è stata conquistata dall'Isis. U. ci racconta che persino la loro bambina di tre anni era costretta a mettere il velo integrale e i guanti neri. Così sono scappati di nuovo. Prima il marito, A., in avanscoperta, è arrivato in Libano e ha trovato un lavoro a Jounieh, un quartiere di Beirut. Poi la moglie, U., che però è partita troppo tardi. Dal 2015 il Libano ha chiuso i confini, quindi U. ha dovuto passare dalle montagne. Nei suoi racconti si sente la paura. Ha camminato per dodici ore al buio, sopra un burrone, con due bambini piccoli in braccio e altri tre al seguito.

 

In Libano, ora vivono in una casa senza finestre e senza porte. La loro vita è così: precaria e scivolosa. Lui continua ad andare ogni settimana a Jounieh in cerca di lavori a chiamata e spesso torna a mani vuote. Viaggiare è pericoloso a causa dei controlli della polizia e io mi domando se non ha paura di essere arrestato. Mi risponde: "Non mi interessa, non ho altra scelta se non questa".

 

Ripetono in continuazione che torneranno in Siria appena i bambini finiranno l'anno scolastico. Dritti nella pancia del leone. Ma in fondo, anche lì dove sono, il pericolo è sempre in agguato. Un giorno arriva la telefonata. Hanno messo A. in prigione, deve scontare un mese di carcere e pagare 100 dollari di multa. L’accusa è il possesso di documenti non validi. Decidiamo di andarlo a trovare in prigione. Lungo la strada, sua moglie U. è felice come una sposa all’idea di vederlo. Vuole fermarsi a comprare quattro porzioni di pollo, anche per noi volontari, da mangiare insieme durante la visita. Porta con sé dei vestiti puliti per suo marito e delle sigarette. Come, se fosse il loro segreto più intimo, ci confida: “Quando non può fumare il narghilè, A. fuma le sigarette…”.

 

La porta della prigione però non si apre. Non ci lasciano vedere A., entrare in una stanza insieme a lui, stringergli la mano. Chiedo perché: è una domanda universalmente legittima. Ma per il carceriere non esistono perché. Esiste solo il suo crudele e cinico delirio di potere. Ha deciso così. Nulla di più. Alla fine, ci fanno parlare con A. attraverso la porta della sua cella. È un'ombra sfumata. Ho la sensazione di parlare con lui da una distanza enorme, dove le voci si spengono prima di compiere il loro scopo. La moglie mette una mano sulla porta blindata. Cerca un qualsiasi contatto, congelato dal freddo del ferro. Dice che l'avvocato sta lavorando, che noi volontari stiamo contattando delle associazioni. Anche lui le parla, la rassicura sulla sua salute, le dice che lo trattano bene.

 

Dalla cella, però, esce un tanfo che svela ciò che A. non vuole dire. Racconta di quindici corpi stipati in due stanzette di quattro metri quadrati. Dormono per terra, su materassi schiacciati più della loro dignità. Nel rituale della cattura, dopo essere stati arrestati, si viene sistematicamente umiliati. Portati ai servizi segreti militari, spogliati nudi, rivestiti, colpiti e insultati come animali. Come animali vengono poi ammassati in queste celle. Mi chiedo perché si accaniscano così tanto contro i profughi siriani. Perché li maltrattano così? È una rabbia immotivata, quella che provano contro di loro, riservata nei tempi e posti più bui della storia contro chi viene privato dei propri diritti basilari.

 

Sono sempre di più quelli che subiscono questa sorte, in Libano. Si ha la sensazione di essere dentro una pentola a pressione. La polizia arresta sempre più persone, a gruppi di venti o trenta al giorno. Dei quindici che ci sono nella cella di A., tredici sono siriani con i documenti scaduti.

 

Quel giorno, non succede nulla di quello che ci eravamo immaginati. Non vediamo A., non possiamo abbracciarlo, non dividiamo il pollo che abbiamo comprato. Sul trasporto, al ritorno, U. piange.

Io rifletto, sono stupito della forza che A. ci ha mostrato da dietro la porta blindata. Non si arrende, non fa il gioco dei suoi carcerieri. Invece, si preoccupa per i suoi compagni di cella, per i suoi figli, e perfino di noi volontari, amici, figli a nostra volta. Ha detto, tra le altre cose, che vorrebbe uscire prima che la volontaria P. parta, per salutarla. Dimostra amore invece che rabbia. Secondo me ha vinto lui. E io finché ci saranno persone come lui, io ho speranza.

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