L'Arminuta di Donatella Di Pietrantonio, un romanzo dove le madri si scoprono fragili, ambivalenti, imperfette, ma alla fine perdonabili
Il mio comodino è un'instabile pila di libri, e in questo blog proverò a condividere alcune delle letture più belle che mi accompagnano.
In un imprecisato paese dell’entroterra abruzzese, in un giorno qualunque, una bambina torna alla sua famiglia d’origine. L’aveva lasciata a pochi mesi dalla nascita, per essere adottata da una coppia di lontani parenti. Più che un ritorno, quello dell’Arminuta (parola che in abruzzese significa proprio "quella che è tornata") è una restituzione; viene infatti consegnata quasi come un pacco, insieme alla borsa di scarpe in disordine che porta con sé e ad altre poche cose. Dell’Arminuta non sapremo mai il vero nome, ma solo questo appellativo che con disprezzo le affibbiano i ritrovati compaesani.
Inizia così, con un inspiegabile ritorno, l’ultimo romanzo della scrittrice Donatella Di Pietrantonio, che segna il passaggio dell’autrice di Bella mia e il precedente Mia Madre è un fiume a Einaudi. Avevo letto il suo primo romanzo, edito da Elliot, ed ero rimasta incantata dalla sensibilità dell’autrice nell’indagare i rapporti al femminile. Allora era il tentativo di una figlia di ricucire i ricordi della madre, malata di Alzehimer, che progressivamente si va allontanando; in quest’ultimo romanzo, la scrittrice abruzzese torna a raccontare la maternità e il femminile scegliendo la prospettiva di una ragazzina (la voce narrante è infatti quella dell’Arminuta).
Nell’Arminuta i legami tra donne sono forti come il loro carattere: da un lato il rapporto della protagonista con la ritrovata sorella minore Adriana, l’unica della nuova famiglia ad accoglierla veramente, e dall’altro quello con “le madri”. Già, perché in questo nuovo romanzo il materno si manifesta almeno in tre personaggi: la madre biologica, la madre adottiva e l’amica di famiglia che ospiterà l’Arminuta in città durante gli anni del liceo. Ma in realtà, nessuna di queste tre donne riesce ad essere una figura di riferimento femminile adulta fino in fondo.
In questo filo sottile tra la possibilità e l’impossibilità, tra il desiderio e il fallimento, tra la maternità come mero fatto biologico e come affetto, si muove con maestria l’autrice, in quello che a mio avviso è l’aspetto più riuscito del libro: il tratteggiare le madri come esseri fragili, ambivalenti, imperfette, ma alla fine perdonabili. Se all’inizio la madre adottiva, che ha permesso alla bambina una vita agiata e ricca di stimoli in città, è figura dolorosamente rimpianta (l’Arminuta ignora infatti le ragioni della sua restituzione alla famiglia d’origine) e costantemente messa a confronto con la madre biologica, brusca e fredda, nell’avanzare del racconto le cose cambiano, per lasciare pian piano emergere le sfaccettature di ogni personaggio.
E così insieme alla protagonista alla fine anche noi lettori e lettrici le assolviamo tutte, questa donne adulte così umanamente imperfette.
Sullo sfondo, un Abruzzo mai esplicitamente nominato ma sempre presente: nelle incursioni dialettali ma anche nella geografia, che affianca alla dolcezza del mare l’asprezza dell’entroterra montuoso, ideale contraltare paesaggistico della complessità, a volte contraddittoria, che ci riguarda tutti.