Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi, state dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù
Laureato in Filosofia e in Scienze Religiose. Insegno Pluralismo e dialogo fra le religioni,
Terminata la lettura del decimo capitolo del Vangelo secondo Matteo, il Vangelo di questa domenica è la conclusione del capitolo successivo, l'undicesimo. Dopo aver terminato il discorso sulla missione dei suoi discepoli, il cap. 11 si apre con l'arrivo di una delegazione inviata da Giovanni battista per chiedere a Gesù se egli fosse realmente il Messia atteso.
Partita la delegazione, Gesù loda, davanti alla folla, l'operato di Giovanni, sottolineando l'ipocrisia di coloro che sono chiusi alla Parola, in qualsiasi forma essa venga proclamata: "Venne infatti Giovanni che né mangia, né beve, e dicono: ha un demonio. Venne il Figlio dell'uomo, che mangia e beve, e dicono: Ecco un uomo mangione e beone, amico dei pubblicani e dei peccatori" (Mt 11,18-19).
Eppure l'operato di Gesù avrebbe dovuto rendere giustizia alla natura della Parola vivente proclamata, per questo il suo scoramento era grande verso quelle città - come Chorazìn e Bethsaida - in cui era stato, aveva insegnato e operato il bene lui stesso, eppure i loro abitanti non avevano voluto accogliere la sua via, la sua verità. Il nostro brano si innesta proprio in questo punto.
Mt 11,25-30 In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: "Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. 26Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza. 27Tutto è stato dato a me dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo.
28Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. 29Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. 30Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero".
Gesù, nonostante il rifiuto e la più che umana delusione, affronta la situazione cantando un vero e proprio inno di giubilo a Dio, al Padre. Il testo greco dice letteralmente che Dio ha voluto rivelare 'agli infanti'=bambini che non sanno ancora parlare.
Con tale termine vengono indicati i discepoli e, più in generale, la parte umile del popolo, quella che non veniva considerata dalle classi abbienti in quanto ignorava la Torah di Mosè. Gli 'intelligenti', qui, sono quindi le guide del popolo giudaico, chi interpretava ufficialmente la Torah. Coloro che operavano religiosamente e, quindi, in una dimensione civile, la Legge per la Legge, un rispetto dei decreti che andava abbandonando la dimensione relazionale con l'altro: "Il sabato è stato fatto per l'uomo, e non l'uomo per il sabato" (Mc 2,27), indica Gesù.
Gesù non loda il Padre perché ha impedito ai dotti e ai sapienti di conoscere il Regno come se, in sé, la conoscenza fosse un male. È la finalità attribuita alla conoscenza ed alla sapienza che può portare l'uomo ad allontanarsi dall'altro uomo, addirittura ad utilizzarla per sopraffare l'altro, ritorcendo la sapienza contro se stessa, i 'sapienti secondo la carne'.
"Considerate infatti la vostra chiamata, fratelli: non ci sono tra voi molti sapienti secondo la carne, non molti potenti, non molti nobili. Ma Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono, perché nessun uomo possa gloriarsi davanti a Dio" (1Cor 1,26-29).
Gesù, il Figlio che riconosce il Padre, nella letteratura dei primi tre vangeli non vuole abolire la Torah, l'Insegnamento/Legge di Mosè, ma portarla al suo – se così si può dire – compimento umano. Perché un insegnamento, una via, quando si irrigidisce in precetti che inducono più al solipsismo che alla relazione, diventa parola di morte, anziché di vita.
Qui, chiaramente, non è la Torah il problema (anzi), e nemmeno i suoi insegnamenti. Il problema, piuttosto, sono coloro che applicano e fanno applicare questi insegnamenti. Ponendosi come chi pensa di possedere la fede e la conoscenza totale delle cose e di Dio, è facile dimenticare che l'osservanza di una legge di Dio deve avere come orizzonte il Legislatore, non l'assopimento nella (buona) coscienza. Come disse il profeta Osea: "Poiché voglio l'amore e non il sacrificio, la conoscenza di Dio più degli olocausti"(Os 6,6).
La legge di Dio che non tende a Dio diventa un peso, un giogo insopportabile perché estrinseco, quindi irrealizzabile. Come, d'altro canto, dimostra chi questo giogo l'ha appesantito: "Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei. Quanto vi dicono, fatelo e osservatelo, ma non fate secondo le loro opere, perché dicono e non fanno. Legano infatti pesanti fardelli e li impongono sulle spalle della gente, ma loro non vogliono muoverli neppure con un dito. Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dagli uomini: allargano i loro filattèri e allungano le frange; amano posti d'onore nei conviti, i primi seggi nelle sinagoghe e i saluti nelle piazze, come anche sentirsi chiamare 'rabbì' dalla gente" (Mt 23,2-7).
Come scrive Enzo Bianchi: "Non siamo forse anche noi testimoni di queste realtà? Proprio quelli che sono saggi, che mondanamente hanno acquisito saggezza, proprio quelli che sono esercitati intellettualmente e raggiungono un’alta qualità di conoscenza mondana della realtà, non sono poi capaci di aprirsi alla buona notizia del Vangelo e di accoglierla. L’Apostolo Paolo ha visto e sperimentato questo stesso scacco del Vangelo quando ha predicato di fronte ai saggi e agli intellettuali di questo mondo, come testimonia nella Prima lettera ai Corinzi: “La parola della croce è stoltezza per quelli che si perdono, ma per quelli che sono salvati è potenza di Dio … Dov’è il saggio? Dov’è l’intellettuale? Dov’è il sottile ragionatore di questo mondo?” (1Cor 1,18.20). Il risultato della predicazione del Vangelo è folle! Aderiscono a esso i poveri, gli ultimi, le vittime e gli scarti della società, quelli che non contano, mentre rigettano questo dono i saggi, gli intellettuali, i nobili, le élites e quelli che contano, “gli árchontes di questo mondo” (1Cor 2,8)".
Il giogo di Gesù è lieve perché, più che focalizzarsi sui precetti, richiede una profonda adesione esistenziale alla totale apertura all'altro, alla relazione con l'altro che deve essere iscritta nella libertà. Il coraggio di essere liberi passa per il coraggio di dire un sì incondizionato alla relazione con Dio, quindi alla relazione con l'uomo e con il creato. Dire sì ad un altro che non è mai l'eguale, fino a giungere al Totalmente Altro che è Dio, quindi al Totalmente Diverso. Il coraggio di camminare nella fede, tenendosi saldi alla libertà. Come scrive Paolo: "Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi; state dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù" (Gal 5,1).