Galit Atlas è una psicoanalista autrice di un importante lavoro sul trauma “ L’eredità emotiva”. Galit Atlas è ebrea, nata a Tel Aviv, e vive e lavora a New York. In questi giorni in cui assistiamo impotenti alla tragedia che si sta compiendo in Medio Oriente mi è capitato di chiedermi cosa penserà, Atlas, di quanto sta accadendo nel suo Paese. Quello a cui stiamo assistendo è, nella sua enorme tragicità, un processo di radicamento del trauma individuale e collettivo i cui effetti si protrarranno per decenni. Come sostiene Bessel van der Kolk, probabilmente il massimo esperto mondiale in materia di trauma, “chi studia il trauma sa che le persone ferite feriscono le persone”, e questo è, naturalmente, del tutto funzionale agli obiettivi del terrorismo.
Infatti, sebbene molto raramente il terrorismo raggiunga reali obiettivi politici, spesso, e in questo caso in maniera del tutto eclatante, raggiunge l’obiettivo di suscitare una risposta ancora più forte, ancora più eccessiva, nella convinzione che questo possa suscitare nuove simpatie verso le proprie posizioni più estreme. E così l’orrore suscitato dal feroce e criminale attacco del 7 ottobre, che certamente ha riattivato in molti israeliani la memoria profonda dei traumi subiti, dai pogrom all’olocausto, si è rapidamente trasformato in una reazione del tutto sproporzionata che oggi ha superato le 22 mila vittime, quasi tutte civili di cui una parte enorme di bambini. Centinaia di migliaia stanno conoscendo l’esilio forzato, l’assenza di assistenza sanitaria, la negazione dei principali diritti umani.
Soprattutto, ancora, i bambini. Nella Striscia di Gaza e in ogni parte del Medio Oriente abitata da palestinesi questo trauma rimarrà radicato per anni, decenni, e decine di migliaia di persone – soprattutto i più giovani – porterà con sé gli effetti dell’esposizione ad una violenza così estrema, della perdita di persone care. E questo, naturalmente, rappresenterà un potenziale bacino di coltura ideale per la propaganda di Hamas e delle frange più estreme del terrorismo. Credo sia ormai troppo tardi per chiedere ad Israele un minimo di proporzionalità nella sua azione di risposta. I richiami, per altro timidissimi, dell’Europa e degli stessi Stati Uniti – che non hanno esitato ad inviare nell’area imponenti forze navali – sono caduti nel vuoto e del tutto ignorati dal governo di Netanyahu il quale, come è noto, è il governo più di destra della storia di Israele, di norma orientato alle istanze più estreme dei coloni e delle aree culturalmente più conservatrici e fondamentaliste.
Eppure, sarebbe potuta andare diversamente. Tutti ricordiamo come dopo l’attacco terroristico alla delegazione olimpica israeliana a Monaco il governo di Golda Meir, dopo alcune incursioni aeree su basi dell’OLP, decise di braccare ed uccidere tutti i responsabili, diretti ed indiretti, di quell’attentato. Colpì gli attentatori, i responsabili, non i palestinesi in quanto tali. Ma, purtroppo per Israele e per tutti noi, Netanyahu non è, nemmeno lontanamente, Golda Meir. Che si voglia o no, tra le frange più estreme delle due controparti vi è una sorta di simmetria, di specularità: entrambi, Hamas quanto le aree più conservatrici della politica israeliana, non credono nell’idea di due popoli e due stati, e men che meno in una idea di convivenza. E così da una parte sono stati violati sistematicamente gli accordi sulla spartizione del territorio e dall’altra non si è persa occasione per attaccare i civili con azioni terroristiche.
Non è un caso che la fragilissima tregua del mese scorso sia stata rotta da una azione di Hamas, che ha tutto l’interesse politico a mantenere alta la tensione. La enorme e ingiustificabile sproporzione della risposta militare ha, tra l’altro, fortemente indebolito e in molti casi – e per centinaia di milioni di persone in tutto il mondo – cancellato il moto di vicinanza e compassione e di solidarietà con il popolo israeliano provato dei giorni seguenti il criminale attacco di Hamas. Dopo le prime manifestazioni di vicinanza e solidarietà, in cui spesso è mancata la capacità e forse la volontà di distinguere tra popoli e governi (quanto sarebbe stato bello, e forte, vedere assieme bandiere israeliane e palestinesi a rappresentare due popoli, e certamente non i loro governi e le rappresentanze terroristiche) oggi in tutto il mondo si tace.
Anche da noi, il dramma del Medio Oriente è progressivamente scivolato verso l’interno dei giornali e dei media: può capitare, ed è capitato, che si parli prima di influencer e pandori che della Striscia di Gaza. Ma ciò che colpisce è, in particolare, il silenzio dei democratici, del pensiero liberal a livello mondiale e, tanto per cambiare, anche in casa nostra. Eppure quanto sta accadendo non è indipendente dal carattere politico del governo di Israele, così come dal carattere integralista di Hamas. Ma, lo sappiamo, è molto più facile e politicamente remunerativo – almeno nel breve periodo .- schierarsi “senza se e senza ma“. Il pensiero costa fatica, così come costerà enorme fatica e tempi molto lunghi, riparare gli effetti di questo terribile trauma collettivo.
Eppure c’è bisogno, ora, di marcare la differenza. C’è bisogno di qualcuno, almeno di un pensiero, che riesca ad accogliere le sofferenze, TUTTE le sofferenze, che riesca a distinguere tra governi e popoli. C’è bisogno di tanta politica, di una politica che non ceda alla logica del fine che giustifica i mezzi. Nessun fine può giustificare gli stupri e gli omicidi del 7 ottobre, nessun fine può giustificare l’uccisione di migliaia di bambine e bambini. Noi, i popoli e le culture politiche eredi di un pensiero democratico spesso costruito in risposta alla violenza ed alla negazione dei diritti, dovremmo difendere questi principi fondanti, anche se è difficile. Eppure sarebbe proprio in questo marcare la differenza che il pensiero democratico potrebbe aprire nuove strade e nuove possibilità e riguadagnare capacità attrattiva in un mondo in cui sembra soffiare forte il vento della separazione, del sovranismo, dell’intolleranza.
Insomma, è nostro compito marcare questa differenza, e quanto sarebbe bello se il governo di Israele avesse compreso questa opportunità e che si chiedesse, come fece Churchill quando durante la seconda guerra mondiale venne proposto di tagliare i fondi per la cultura per destinarli alle spese militari, “ Ma se facciamo così, per cosa combattiamo ?!”