Le uve ''resistenti'' Piwi possono essere la viticoltura del futuro? C'è la proposta di sfruttare le Igt come palestra per arrivare ai protocolli Doc
Cercherò di stuzzicare curiosità e piacevolezze. Lasciando sempre spazio nel bicchiere alla fantasia
I giorni della merla - quelli solitamente più freddi dell’inverno - sono alle porte e i cultori del buon bere sono impegnati nelle potature dei vigneti, per "interpretare" le vendemmie autunnali. Non mancano però interrogativi sul futuro della viticoltura, alle prese con scelte in merito a tecniche colturali - e varietà di viti - che affrontino con criterio i repentini cambiamenti climatici e tutta una serie di questioni legate alla sostenibilità, intesa come riduzione della chimica e operatività meno invasiva, contro ogni spreco, energetico e gestionale.
Da tempo il settore vitivinicolo auspica la tutela dei suoi migliori vigneti attraverso una strategica e lungimirante campagna di ricerca scientifica, per cercare soluzioni agronomiche il più possibili naturali. Tra dibattiti e qualche sana provocazione.
La più clamorosa - e decisamente interessante, anzi: prorompente - giunge da un luminare della vite, il professor Attilio Scienza, salde radici trentine, per anni direttore alla scuola di San Michele all’Adige, docente universitario a Milano e attualmente a capo del Comitato nazionale vini.
Intervenendo a un convegno via web organizzato da Alleanza Cooperative Agroalimentari - gruppo di lavorio coordinato da Luca Rigotti, presidente pure di Nosio e dunque Gruppo Mezzacorona - il professore ha lanciato una proposta decisamente innovativa: sfruttare le Igt (Indicazioni geografiche tipiche) dei vari vini italiani come palestra per i vitigni Piwi (speciali varietà, piante resistenti alle malattie della vite).
Vale a dire: mettere a dimora queste viti Piwi, produrre dei vini con le loro uve, studiarne ulteriormente l’evoluzione e poi inserire la possibilità di usare queste viti futuribili nei rigidi disciplinari dei vini a Denominazione d’origine, sia nelle Doc che in quelle garantite.
Proposta subito raccolta da numerosi ‘comunicatori enoici’, a partire da Winemag, che hanno rilanciato l’idea di Scienza alla (ancor piccola, ma agguerrita) schiera di vignaioli da anni fautori della viticoltura Piwi. Una schiera di vignaioli che proprio in Trentino Alto Adige hanno messo a dimora queste insolite varietà chiamate "resistenti".
Aziende lungimiranti, con alcuni cantinieri e enologi decisamente entusiasti dei risultati. Citazione doverosa per Mario Pojer, tra i primi - con quelli della Pravis di Madruzzo - a vinificare in purezza uve "resistenti". Con mirate produzioni anche in zone insolite, d’alta quota. E’ il caso di Filanda de Boron, a Tione, ma incredibile successo anche per il Vin de la Neu, quello che Nicola Biasi produce a Coredo, in alta val di Non. E tanti altri ancora, come ha dimostrato la rassegna imbastita dalla Fondazione Mach, con l’adesione di 96 vini di questa tipologia, presentati da aziende di varie regioni.
La proposta/provocazione di Scienza scaturisce pure dal fatto che la Francia ha già autorizzato l’utilizzo di alcune varietà di vitigni resistenti per la produzione di vini a denominazione Bordeaux e Champagne. Varietà addirittura catalogate come vitis vinifera. In Italia, finora, solo l’Alto Adige consente di sfruttare la vite Bronner nell’IGT Mitterberg. Ma i francesi corrono.
Sempre secondo Scienza, occorre lavorare per la creazione di vitigni resistenti a partire da incroci con vitigni autoctoni italiani, "sull’esempio di quanto già fatto con in Friuli Venezia Giulia con l’ex Tocai (oggi Friulano), e in Trentino con Nosiola e Teroldego". Su questo fronte sarebbe già al lavoro il Crea – Centro di Ricerca per la viticoltura di Conegliano.
"Un aspetto importante – ha proseguito il numero uno del Comitato nazionale vini – riguarda la comunicazione di questi vitigni, che devono essere considerati, anche dal punto di vista organolettico, delle realtà a sé stanti, non paragonabili ai loro genitori". Andrebbe inoltre creato "un Club con un marchio nazionale", in sostituzione a quello dei Piwi di origine germanica, utile a mettere in rete expertise, favorire la zonazione e l’individuazione dei migliori terroir per ogni singolo vitigno resistente.
Quanto al loro inserimento nelle Denominazione di origine dopo la "palestra" dell’Igt, si procederebbe per via graduale. "Su richiesta dei Consorzi – ha spiegato Scienza – il Comitato nazionale vini potrebbe inserire i Piwi nei disciplinari per un massimo del 15%. Per i successivi tre anni verrebbero vagliati per quantità e qualità, sino ad aumentarne la quota all’interno delle Doc".
In testa, per superficie vitata di vitigni resistenti, c’è il Veneto, con 256 ettari. Segue il Friuli Venezia Giulia, con 230 ettari. Sul terzo gradino del podio il Trentino, con 67 ettari. A seguire Alto Adige (51), Lombardia (12) e Abruzzo (10). Il totale è di 626 ettari, con una stima per fine 2021 che doveva raggiungere quota 1.050. Una cifra ancora irrisoria se paragonata all’intero vigneto Italia, pari a 666.400 ettari.
Ultima annotazione. Le Piwi possono generare la viticoltura del futuro? Probabilmente sì.
La vite cisgenica o ottenuta con correzione del genoma (genome editing) può essere considerata la versione moderna delle viti ancestrali? Sono varietà ottenute con la cisgenica, vale a dire dal trasferimento di una parte del Dna proveniente da individui che appartengono allo stesso genere, il genoma è molto più integro e più vicino alle viti europee. Questioni e ricerche genetiche che hanno suscitato qualche perplessità in settori della filiera vitivinicola. In quanto varietà decisamente ‘del futuro’, condannate prima ancora che possano vedere la luce e senza che possano dimostrare la loro innocuità nei confronti della salute del consumatore.
Chiosando una espressione di Luigi Cavalli Sforza, riferita agli uomini, ”Il meticcio ci salverà”. Molte parole di uso corrente hanno un significato ambiguo, ad esempio: la tradizione vuol dire trasmettere, ma anche tradire; così come la parola scandalo, in greco identifica un impedimento, un trabocchetto, ma anche il mettersi in movimento. Verso la viticoltura del futuro?