Paolo Cognetti racconta il ricovero per "grave depressione sfociata in una sindrome bipolare con fasi maniacali". Parlare delle nostre fragilità è importante
Stamattina è uscita un’intervista dal titolo "Cognetti: 'Vivo ma morto. I miei giorni in psichiatria'". Lo scrittore è stato appena dimesso dal reparto dove era stato ricoverato con un Tso. È necessario sottolineare l’importanza del racconto, che in questo caso riesce a eliminare lo stigma che abbiamo cucito sulle nostre fragilità, sulle nostre patologie e, soprattutto, sulla parola imperfezione
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.
In una società abbagliata dalle luci del successo, le ombre che, in un modo o nell’altro, avvolgono ciascuno di noi vengono facilmente confinate nel riserbo degli spazi più intimi. Coperte da un velo di imbarazzo, cerchiamo di isolarle nella speranza che la loro influenza perda nel tempo vigore.
Di conseguenza, è come se un potentissimo filtro si inserisse tra noi e il mondo ogni volta che la nostra soggettività si manifesta pubblicamente. Lo riescono a superare le sfumature più luminose, i trionfi, le battaglie vinte, gli entusiasmi. Gli inciampi della vita rimangono invece intrappolati nelle maglie troppo fitte del nostro pudore. In un mondo che premia i vincenti, i portatori di sicurezze assolute, le inquietudini non possono infatti emergere: a impedirlo è il sistema culturale in cui viviamo.
Stamattina, su Repubblica, è uscita un’intervista dal titolo Cognetti: "Vivo ma morto. I miei giorni in psichiatria". Lo scrittore è stato appena dimesso dal reparto dove era stato ricoverato con un Tso - trattamento sanitario obbligatorio - a causa di una "grave depressione sfociata in una sindrome bipolare con fasi maniacali".
Soffermarsi sui numerosi spunti di riflessione offerti dalle parole dell’autore de Le otto montagne in questo momento ha poco senso, così come sarebbe indelicato mettersi ad analizzare le considerazioni emerse sulle Terre alte.
È invece necessario sottolineare l’importanza del racconto, che in questo caso riesce a eliminare lo stigma che abbiamo cucito sulle nostre fragilità, sulle nostre patologie e anche e soprattutto sulla parola imperfezione. Parlare di imperfezione è un respiro profondo e salutare per una società impegnata nella perenne rincorsa di un’utopica e forse irraggiungibile perfezione. Spesso sembra di vivere con una mano perennemente protesa verso un frutto succulento che, tuttavia, non riusciamo mai ad afferrare. Ciò crea fratture psicologiche capaci anche di scendere in profondità e di spingerci negli abissi dell’insoddisfazione.
Quella uscita su Repubblica è quindi un’intervista importante e, come redazione, auguriamo a Paolo Cognetti (che nel tempo ci ha offerto l’occasione di calibrare il nostro sguardo sulle Terre alte, abbracciando o mettendo in discussione le sue riflessioni) di ritrovare, nelle imperfezioni della vita, il ritmo del passo e del racconto.