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Attualità

Turismo e montagna: una ricetta contro l'omologazione

Fino a che punto la montagna di oggi sa conservare, anche sul piano della promozione turistica, la vocazione per la propria specificità culturale, per le proprie radici, la propria storia? Stiamo assistendo ad un processo di uniformazione dell’universo montano in risposta alle esigenze che provengono dal settore turistico. Siamo sicuri che questa trasformazione sia positiva per il suo futuro?

di
Luca Trevisan
20 gennaio | 06:00
Questo articolo si rispecchia nei nove punti del Manifesto,
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.

Leggevo recentemente un interessante articolo che associava le caratteristiche del glutammato di sodio a certi nuovi strumenti della didattica nell’ambito della scuola. E, leggendolo, mi è parso da subito evidente come sia possibile tracciare, in questo senso, un altrettanto evidente parallelismo tra il glutammato di sodio e il mondo contemporaneo della montagna. Vi starete chiedendo dove stiano andando a parare queste considerazioni in apparenza farneticanti. La questione è presto detta. Ma procediamo con ordine.

 

Del glutammato di sodio credo che chiunque abbia fatto più o meno largo e più o meno consapevole impiego in cucina. Si tratta di un prodotto ampiamente utilizzato nell’industria alimentare come additivo o, per dirla in altro modo, come esaltatore di sapidità. Ha una sigla ben particolare che lo identifica e che, a voler scorrere gli ingredienti degli alimenti, permette al consumatore di individuarne la presenza: E621.

Lo si trova in non pochi alimenti: dal latte e i suoi derivati ai pomodori, dalle verdure in scatola ai cibi congelati, dai salumi ai funghi ecc. Ma è soprattutto nei dadi o nei preparati granulari per brodo che si trova maggiormente il glutammato di sodio. Chi non ha mai pensato di esaltare il sapore di una propria minestra o di un proprio risotto ai porcini, oppure di insaporire una padella di verdure aggiungendovi una congrua dose di dado?

Lasciando perdere in questa sede le implicazioni che un tal genere di sostanze può avere sulla salute dell’organismo, è su di un altro aspetto che vorrei condurre il ragionamento: sul fatto che, sul piano del gusto, l’esaltatore di sapidità ha la naturale, inevitabile conseguenza di livellare in un certo qual modo i gusti, di camuffarne le specificità e di favorirne piuttosto un processo di uniformazione. E in tutto questo, che cosa c’entra la montagna?

 

Mai come oggi la montagna è risultata permeata di una dose considerevole di metaforico glutammato di sodio. Bisogna, da un lato, esaltare ai fini di una sempre più capillare promozione turistica un mondo che da solo pare non poter più bastare a se stesso, e si finisce, dall’altro lato, per livellare, uniformare il dato visibile dell’universo montano a una sorta di panorama indistinto, e a tratti costantemente identico, a prescindere dal luogo nel quale ci si trova.

 

Recentemente, come ha ben raccontato Mauro Varotto nel suo fortunato e bel libro Montagne di mezzo (Einaudi, Torino 2020), la montagna è divenuta sempre più l’ora d’aria a disposizione del popolo proveniente dalle città della pianura. Di fronte a una civiltà, quella alpina, che nel corso prevalentemente dell’ultimo secolo ha letteralmente assistito a una autentica mutazione delle proprie tradizioni culturali, sociali, economiche e produttive, una civiltà cioè che ha visto sgretolarsi le proprie specificità sociali e territoriali in favore di un processo di ricostruzione della propria identità, misurata – dagli anni Sessanta in avanti – sul modello degli abbaglianti miraggi del boom economico, prima, e sull’illusione di un illimitato processo di crescita legato alla vocazione turistica, poi, la montagna di oggi ha letteralmente cambiato volto. L’allarmante deriva attuale, che rappresenta la naturale conseguenza del processo descritto, è data dalla pretesa esercitata dal cittadino nei confronti della montagna nel momento in cui inizia a rapportarsi con essa. 

 

«Il cittadino, imponendosi col diritto del numero e del danaro», scriveva in modo per certi versi profetico ancora all’attacco degli anni Trenta Giuseppe Mazzotti, «vuole che la montagna sia non come è, ma come la sua invadente superficialità la desidera» (G. Mazzotti, La montagna presa in giro, 1931). E in effetti, agganciandosi a questa riflessione, Mauro Varotto perviene a spiegare con il particolare acume che gli è proprio l’essenza del problema cui stiamo tutti, più o meno consapevolmente, assistendo. Dopo la guerra, il profugato, l’abbandono con il conseguente inselvatichimento di valli e contrade, la scoperta della montagna da parte del popolo di pianura negli anni del boom economico ha rappresentato per molti aspetti una boccata d’ossigeno di non poco conto, per quelle contrade che, nella crisi delle tradizioni socio-economiche locali, iniziavano a spopolarsi. Ma era un’altra, la montagna che il turista cercava. Non quella delle tradizioni locali basate sulla gestione delle risorse pascolive e boschive, dei lavori e delle necessità dei propri abitanti. 

 

Da un lato, l’ospite proveniente dalla città, complice la diffusione di ben determinati modelli pubblicitari, ha iniziato ad aspettarsi una montagna svuotata dei suoi abitanti e delle esigenze concrete di questi ultimi: una montagna fatta di paesaggi alpini da contemplare, di panorami mozzafiato dinnanzi ai quali incantarsi, di stupende vette dolomitiche, di affascinanti (e simbolici) animali selvaggi, di incantevoli tramonti, secondo il vecchio mito di Heidi.

Dal lato opposto, però, questa montagna “svuotata” aveva bisogno di essere riempita di tutti quegli elementi e di tutti quei simboli che l’uomo di città si aspettava di trovare per trascorrere i propri momenti ricreativi in quota, al fine di assaporare l’ora d’aria che reclamava a propria disposizione in uno spazio, benché a tratti fittizio, in cui riconoscersi. La montagna ha allora iniziato a riempirsi di seconde case (lasciate vuote per buona parte dell’anno), impianti di risalita, bacini per l’innevamento artificiale, discoteche in quota per il divertimento après-ski, strutture ricreative, simboli retorici inneggianti al sacrificio degli eroi della Grande guerra, e di tutti quei comfort che la moderna mentalità industriale ha, ad un certo punto, iniziato ad aspettarsi di trovare in montagna. E la cosa ha per un periodo ben funzionato, negli anni del boom, per frenare l’emorragia umana che aveva infestato valli e monti dell’arco alpino.

 

A livello di promozione turistica, la montagna ha allora iniziato a proporre non le proprie specificità territoriali, non la vocazione di un dialogo con le proprie lontane e connotanti tradizioni del passato, se non in parte. Bensì ha iniziato a vendersi come luogo fittizio, come parco giochi ricreativo, a rincorrere in misura forsennata le richieste del proprio pubblico di esterni, a declinarsi e a trasformasi sulla base delle necessità di quest’ultimo, ad adattarsi ai desideri e alle esigenze dell’uomo di città, rinnegando in qualche misura se stessa e le sue specificità culturali.

 

«Quando la montagna si forza per aderire al cliché che il turista si aspetta di incontrare, rimane imprigionata in una insostenibile caricatura di se stessa, come una donna troppo truccata per l’ansia di piacere a tutti i costi», scrive Varotto. E sono parole che andrebbero scolpite e mandate a memoria. E su cui meditare. 

 

Perché oggi – e questo è il punto su cui vorrei tornare a riflettere, ricollegandomi al metaforico parallelismo proposto in apertura – la montagna si sta truccando troppo e vestendo di un’infinità di attrazioni che non parlano della sua storia, delle sue radici, delle sue tradizioni storico-culturali, e che rappresentano il goffo tentativo di rincorrere le richieste del turista di turno. Oggi la montagna, nonostante la crisi climatica, idrica ed energetica, continua a riempirsi di impianti di risalita anche a basse quote, spesso finanziati per giunta dalle pubbliche amministrazioni, rincorrendo quell’illusoria prospettiva di crescita illimitata che caratterizzava i tramontati anni Ottanta. Oggi la montagna si riempie di discoteche all’aria aperta nei locali attigui agli impianti. Oggi la montagna si riempie di panchine giganti per selezionare per conto dell’homo videns il panorama da contemplare: il solo panorama pensato per lui, quello iconico che avrà visto e rivisto in rete o sulle brochure pubblicitarie. E nel fare tutto questo, oggi la montagna è disposta a sfruttare risorse territoriali non rinnovabili in tempi brevi, senza alcuna lungimiranza per le future generazioni.

 

L’elenco di elementi aggiunti di cui la montagna tende oggi a riempirsi potrebbe continuare a dismisura, ma credo che gli esempi proposti siano sufficientemente chiari a definire il cuore del problema. Possiamo variare itinerario, cambiare montagna, ma in ciascuna ritroveremo grossomodo gli stessi ingredienti, gli stessi esaltatori di sapidità. Per creare quello stesso gusto, omogeneo e quasi indistinto, che, ovunque vada, il turista si aspetta di trovare. E così, in definitiva, accade che, per assecondare le richieste dell’ospite dalla pianura, la montagna rinneghi se stessa, le proprie radici. Accade che gli aspetti naturali dell’universo montano siano messi in secondo piano rispetto ad un paesaggio costruito, fittizio, modellato a misura di cittadino. Accade alla fine che il carattere peculiare di un dato luogo sia messo da parte in favore di un atteggiamento globalizzante che accomuna, standardizza, livella, uniforma. 

Avremo, in questo modo, esaltato forse la sapidità della montagna, ma ne avremo perso irrimediabilmente l’anima.

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