"Porto l'Alzheimer in teatro, dal mio vissuto al lavoro di ricerca al Cibio" intervista a Luca Marchetti in scena con "Le parole che non ho detto. Io, Nonno Dino e l’Alzheimer"
Lo spettacolo racconta la malattia ma anche la ricerca, con l'intenzione di sensibilizzare le persone sul tema dell'Alzheimer. Luca Marchetti: "L'arte può contribuire a creare, o a rafforzare, il rapporto di fiducia tra la comunità e la scienza"
ALBIANO. Un professore che si fa attore, e una storia teatrale che abbraccia scienza e vissuto personale: per raccontare l'Alzheimer ma anche la ricerca, e sensibilizzare le persone sul tema. È tutto questo, ma anche molto di più, lo spettacolo "Le parole che non ho detto. Io, Nonno Dino e l’Alzheimer" scritto dal professore associato in biologia molecolare del Cibio di Trento Luca Marchetti, che sarà protagonista sul palcoscenico del teatro di Albiano venerdì 15 novembre (20.30) nell'evento organizzato dal Servizio Sociale Spazio Argento.
Nello spettacolo, una produzione della compagnia Arditodesìo, Marchetti – che attualmente è principal investigator del laboratorio di modellistica computazionale del Cibio – racconta del suo vissuto personale, segnato dall'Alzheimer di cui soffriva il nonno paterno, situazione che negli anni lo ha spinto ad intraprendere un percorso di studi e professionale rivolto proprio all'ambito delle malattie neurodegenerative.
Marchetti, come è nato questo spettacolo che intreccia vissuto personale, ricerca e scienza?
Premetto che per lavoro mi occupo dello sviluppo di modelli predittivi, nell'ambito della medicina e della biologia, e questo lavoro, pur traendo ispirazione dalla mia storia personale, parla anche di una parte delle mie ricerche. Mi sono avvicinato al teatro nell'ambito dell'iniziativa "Open Mike", rivolta al personale universitario per contribuire ad una più efficace divulgazione, e da una semplice storia scritta è nato lo spettacolo.
E tutto prende le mosse dalla storia di suo nonno, e da un momento molto particolare.
Esattamente. Mio nonno paterno Dino, a cui ero molto legato, si è ammalato di Alzheimer e nello spettacolo ho voluto raccontare le criticità che la malattia porta con sè, non solo dal punto di vista scientifico ma anche umano. Ne è uscito un percorso di storytelling in cui sono incastonati aneddoti personali, partendo dalla mia infanzia e dal rapporto con mio nonno fino al momento della diagnosi e ai passi successivi. L'evento a cui tutto ruota attorno, e da cui prende il titolo lo spettacolo, è abbastanza drammatico: mi trovavo nella struttura sanitaria dove risiedeva mio nonno e ad un certo punto lui è sembrato recuperare incredibilmente la sua lucidità, realizzando cosa stava accadendo. Mi ha chiesto quindi cosa avrebbe dovuto fare e io, incredibilmente, dopo mesi in cui gli parlavo senza che lui potesse comprendermi, rimasi bloccato non trovando le parole giuste per rivolgermi a lui.
E nello spettacolo emerge come quest'esperienza abbia condizionato il suo percorso professionale.
Esattamente. Tutto parte dal desiderio di volermi quasi scusare con mio nonno per quel momento, e negli anni ho intrapreso il mio percorso di studi e di ricerca, arrivando a dove sono oggi, a varie pubblicazioni e a molte collaborazioni internazionali. E nel testo si scende poi nei dettagli della malattia, che viene spiegata al pubblico in modo semplice, affrontando particolari casistiche e problematiche, tra cui le difficoltà nello sviluppare nuovi farmaci, e il tema dei test di diagnostica precoce, dal momento che mi focalizzo proprio su questo ambito.
Dal palcoscenico al Cibio, ci può raccontare meglio di cosa si occupa?
Proverò a spiegarlo in modo semplice: mi occupo di biologia computazionale. In sintesi biologia al computer volta alla realizzazione di sistemi computazionali, che possono essere visti come dei programmi, volti a rappresentare ad esempio l'evoluzione di una malattia con l'inserimento di una descrizione matematica basata sulle leggi della fisica. L'obiettivo è duplice: da un lato capire come le malattie si manifestano per riuscire ad intervenire nel migliore dei modi, e dall'altro testare possibili scenari di trattamento ad una velocità superiore. In questo modo è possibile mettere in evidenza quelli più promettenti, da testare negli esperimenti. Per fare un esempio concreto: si può avere un impatto diretto, ad esempio, sulla durata della ricerca per lo sviluppo di farmaci nuovi che richiedono di norma tempi e costi altissimi. Tutte queste tecniche, va sottolineato, si possono applicare ad una vasta gamma di studi biologici, clinici e di patologie.
Tra cui appunto quelle neurodegenerative come l'Alzheimer.
Nello specifico, per quanto riguarda questo genere di malattie, mi sto focalizzando sullo studio di un bio marcatore denominato neurofilamento: una proteina che si trova nei neuroni e che, quando si verifica uno stress neurodegenerativo, si diffonde e può essere misurato con delle semplici analisi del sangue. Se il suo livello supera determinate soglie, questo può rappresentare un'avvisaglia di uno stress neurodegenerativo, e quello che si è osservato è come, in diverse malattie, questo possa lanciare dei segnali d'allarme addirittura anni prima dell'insorgenza dei sintomi.
Raccogliamo l'assist e apriamo il capitolo legato al tema della prevenzione, un aspetto fondamentale e che si collega direttamente all'importanza di sensibilizzare le persone sul tema.
Assolutamente sì, e questo è il motivo per cui ho scelto di affrontare nello spettacolo alcuni aspetti della malattia, dei suoi eventi scatenanti e delle loro problematiche, sottolineando l'importanza del trattamento precoce che è un aspetto cruciale. Spero quindi di riuscire a trasmettere al pubblico queste informazioni, che possono risultare utili.
La domanda sorge spontanea: qual è il valore aggiunto dall'arte, e nello specifico dal teatro, nel raccontare determinate tematiche puramente scientifiche?
Puntare su un contenuto emozionale, se supportato da conoscenze precise, avvicina sicuramente all'ambito anche le persone che non hanno un contatto diretto con il mondo scientifico. Si può dire che può contribuire a creare, o a rafforzare, un rapporto di fiducia tra la comunità e la scienza che, obiettivamente, è difficile da instaurare. Questo, va osservato, anche per "colpa" degli scienziati che spesso non riescono a raccontarsi come dovrebbero. Perché ho scelto il teatro? Perchè è un mezzo ideale, credo, per raccontare e raccontarsi inserendo delle riflessioni personali. Oltre ad essere un mezzo di comunicazione potente, le svelo che ha in qualche modo agito anche sulla mia persona: mi sento molto più motivato nel mio percorso e, anche come professore, ne ho tratto dei vantaggi.
Un'ultima battuta, ha dei progetti futuri in cantiere?
Decisamente. Mi sono innamorato di questa modalità divulgativa e ho intenzione di portarla avanti: ho già sviluppato, ad esempio, un progetto sul tema della ricerca sul cancro. Voglio investire in futuro su quest'ambito anche perché, voglio sottolinearlo, fa parte della terza missione dell'università e tocca quindi anche il mio mandato professionale.