Attacco a Israele, l’analisi: “Dagli accordi di Abramo agli obiettivi di Hamas fino al rischio di un conflitto regionale. La pressione montava da anni e ora è esplosa”
Mentre le autorità israeliane hanno ordinato l’evacuazione della porzione settentrionale della striscia di Gaza, nella quale ci si attende a breve l’ingresso dei militari dell’Idf, rimangono molti i punti da analizzare dopo il tragico attacco portato avanti da Hamas nei confronti dei civili israeliani. Ecco l’analisi del direttore della Scuola di Studi Internazionali dell’Università di Trento, Stefano Schiavo
TRENTO. A quasi una settimana dall’attacco dei miliziani di Hamas contro i civili israeliani nelle città e nei kibbutz nelle vicinanze della Striscia di Gaza, dove si contano ad oggi oltre 1000 vittime, le autorità israeliane hanno ordinato oggi (venerdì 13 ottobre) l’evacuazione della porzione settentrionale della Striscia, nella quale si attende l’ingresso dei militari dell’Idf per, usando le parole del ministro israeliano della Difesa Yoav Gallant, far "crollare il regime di Hamas”. Al netto però delle violenze (e del numero sempre crescente di vittime civili) molte questioni rimangono ancora aperte: perché, innanzitutto, i servizi di sicurezza israeliani non sono stati in grado di prevedere una minaccia di questa portata? Quali erano gli obiettivi di Hamas nel portare avanti una vera e propria carneficina tra la popolazione civile? E quali sono soprattutto le prospettive ora per l’intera regione?
“Innanzitutto – spiega a il Dolomiti il direttore della Scuola di Studi Internazionali dell’Università di Trento Stefano Schiavo – nessuno attualmente riesce a spiegare pienamente le ragioni del ‘buco’ del sistema di sicurezza israeliano. Diversi analisti hanno cercato una chiave di lettura nella grande divisione all’interno della società israeliana tra cittadini più o meno ‘secolari’ e religiosi, una situazione che in questi anni, ed in particolare con l’ultimo governo di Netanyahu, si è acuita. Il premier stesso, da un punto di vista politico, ha cavalcato questa divisione, portando tra l’altro alle proteste in piazza degli ultimi mesi contro le riforme presentate, in particolare quella relativa al sistema di giustizia del paese”. In questo contesto molte critiche all’esecutivo sono arrivate anche da generali, ex generali e funzionari dei servizi, continua Schiavo: “Ed è possibile che questa polarizzazione abbia pesato, almeno in un primo momento, sulla dedizione e sulla capacità dell’esercito di servire il governo stesso”.
D’altra parte va però tenuto conto che tra tutte le istituzioni, l’esercito è quella che in Israele gode in assoluto di più fiducia da parte della popolazione: “Proprio per questo – spiega il professore – l’attacco di Hamas è stato scioccante. Ci sono registrazioni della popolazione, nascosta durante l’incursione nei bunker nei kibbutz vicino al confine, che hanno chiamato giornali e televisioni chiedendo dove fossero le forze armate. Quando l’attuale fase di crisi sarà finita (speriamo presto) ci saranno sicuramente commissioni d’inchiesta per capire cosa non abbia funzionato: ad oggi il numero di morti tra gli israeliani è già superiore di quello degli ultimi vent’anni assieme. Senza considerare poi che Hamas ha catturato centinaia di ostaggi”. Un primo momento di difficoltà al quale però, come prevedibile, tanto l’Idf quanto il sistema politico israeliano hanno reagito velocemente, dando il via ad un'intensa azione nella Striscia.
Una situazione che è difficile immaginare non avessero previsto anche i leader di Hamas nel pianificare l’attacco (pare che le incursioni di sabato siano state organizzate in un lungo periodo di circa due anni), sui cui obiettivi (al di là dello sterminio indiscriminato di civili, come dimostrato dalle drammatiche immagini circolare negli scorsi giorni) in molti stanno avanzando interpretazioni su vari livelli: “Una possibile chiave di lettura a livello geopolitico – dice infatti Schiavo – è di puntare a far deragliare il sistema degli accordi di Abramo per la normalizzazione dei rapporti tra Israele e le potenze arabe della regione. Normalizzazione che, al momento, è stata portata avanti con gli Emirati Arabi Uniti e con il Qatar e che avrebbe coinvolto, a breve, anche l’Arabia Saudita, un Paese che ovviamente riveste un ruolo simbolico per la presenza all’interno dei suoi confini dei luoghi più importanti dell’Islam. Se l’attacco di Hamas, con la conseguente risposta di Israele, non ha mandato all’aria del tutto questi accordi, sicuramente l’intero processo sarà rimandato per anni”.
Per i palestinesi infatti, continua il professore, gli accordi sono la prova provata che all’elite araba della causa palestinese importa poco o nulla: “Non che sia una grande novità, ma vederlo sancito nero su bianco è qualcosa di difficile da digerire. Per questo gli attacchi potrebbero essere scaturiti anche dalla volontà di riportare la causa palestinese, fondamentalmente dimenticata in un contesto, come la Striscia di Gaza, che anche in condizioni normali è molto complessa e di grande difficoltà, sotto i riflettori. C’è poi chi da una connotazione più sociologica e che ricostruisce un’identità palestinese proprio nella sua continua resistenza ad Israele, sullo sfondo di una politica che rappresenta i palestinesi all’esterno, l’Autorità nazionale palestinese, che non ha capacità di dialogo, che non ha una prospettiva e che è governata da un presidente ottuagenario il cui silenzio negli ultimi giorni è stato assordante”.
Nel frattempo l’autorità di Hamas su Gaza è invece effettiva da circa 15 anni (dal 2008), tra assedi e chiusure a momenti alterni, con la chiusura dei valichi sia da parte egiziana che israeliana: “Parliamo di una striscia di terra – dice ancora Schiavo – nella quale vivono circa 2 milioni di persone in poco più di 300 chilometri quadrati, è uno dei luoghi più densamente popolati al mondo, con una disoccupazione al 45% e nessun modo di andarsene. Per lunghi periodi i palestinesi sono stati sigillati di fatto all’interno di un territorio che non dà loro nessuna prospettiva. Possiamo quindi forse leggere la situazione attuale come una pentola a pressione che, dopo anni di accumulo, è esplosa”. Un’esplosione, rimanendo nella metafora, che si è concretizzata con una brutalità inaudita da parte dei miliziani di Hamas.
“A questo punto, come anticipato, è difficile capire cosa Hamas pensi di ottenere – precisa l’esperto –. Quel che è certo è che la storia può insegnarci qualcosa sulla gestione degli ostaggi: l’ultimo caso eclatante risale al 2011, quando le autorità israeliane hanno rilasciato dopo oltre 5 anni un totale di oltre mille palestinesi in cambio della liberazione del soldato Gilad Shalit. È possibile quindi immaginare che i miliziani abbiano pensato agli ostaggi israeliani come ad una sorta di deterrente rispetto ad un’azione via terra o forse come ad una strada per la liberazione di tutti i palestinesi incarcerati a Israele. Si tratta di più di 5mila persone, alcune centinaia delle quali in detenzione amministrativa, rinchiusi quindi senza delle formali accuse contro di loro”.
Guardando alla situazione generale lo scenario peggiore rimane quello di un conflitto a livello regionale, in grado di coinvolgere gli attori dell’area e di dare il via ad una pericolosa escalation: “Al momento non sembra che dal Libano ci sia un gran desiderio di intervenire, anche perché il Paese si trova in una situazione economica e sociale molto pesante. Politicamente però è difficile per Hezbollah non manifestare un qualche grado di solidarietà con i palestinesi. Negli ultimi anni infatti è già successi che scontri a Gaza portassero ad aperture di brevi fronti in Libano, un’eventualità preoccupante in questa fase per Israele che si trova a gestire fronti aperti con capacità di fuoco che non vedeva da anni. Le stesse autorità iraniane, pur predicando il sostegno ad Hamas, hanno detto di non essere state direttamente coinvolte e da questo punto di vista non sembrano essere intenzionate a soffiare direttamente sul fuoco”.
L’hotspot, in conclusione, rimane a Gaza: “L’Idf sembra intenzionato ad intervenire, ma un conflitto nella Striscia sfocerebbe in una guerriglia urbana nella quale l’esercito israeliano si troverebbe a dover gestire da una parte la mancanza di appoggio e l'ostilità della popolazione e dall'altra la scarsa conoscenza del territorio. D’altra parte c’è poi il rischio che il numero di vittime civili palestinesi s’impenni, portando ad una reazione da parte della comunità internazionale. Già ieri, per esempio, il segretario di Stato americano ha ribadito che Israele ha diritto a difendersi ma che il ‘come’ ha importanza, segnalando in qualche modo che non ci possono essere attacchi indiscriminati sui civili. Il calcolo di Hamas potrebbe essere stato questo: puntare ad incrinare l’opinione pubblica sulla reazione di Israele, in una situazione che vede gli Stati Uniti già in difficoltà a mantenere un fronte interno sugli aiuti all’Ucraina”.