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Dal dopoguerra e la crescita a "Mani Pulite". Un amarcord estivo sulla recente storia economica e politica dell'Italia

DAL BLOG
Di Nicola Zoller - 07 August 2023

Socialista dal 17° anno d'età, continua a dedicarsi allo studio del pensiero progressista e democratico

In estate abbiamo un po' più di tempo per leggere finalmente qualche ineludibile ma immenso romanzo riposto da tempo sul comodino e forse anche per rileggere (e meditare) le nostre vicende politiche ed economiche del passato recente. Ecco una proposta, con la segnalazione di tre libri finali.

 

“Il periodo fino al 1992 indicato come più corrotto è anche quello nel quale l’Italia è cresciuta di più (e non c’è bisogno di sciorinare dati e analisi del Censis per provare una simile asserzione, condivisa da tutti, anche a livello internazionale). Ora, siccome è senz’altro vero che è la corruzione a bloccare lo sviluppo nei paesi poveri, l’Italia non doveva essere poi così corrotta”.

 

Queste osservazioni, assieme ad altre, espresse sul giornale “l’Adige” del 22 agosto 2002 dal vice direttore del Censis Carla Collicelli – a commento degli interventi di Marco Travaglio e Gian Carlo Caselli in un  convegno svoltosi nell’estate 2002 a Folgaria nel Trentino – hanno originato una replica del procuratore Caselli. Questi ribadiva “che all’inizio degli anni ’90 il nostro Paese era a rischio bancarotta a causa di un debito pubblico insopportabile, causato anche da una spirale corruttiva che imponeva investimenti utili soltanto agli appaltatori e ai loro soci”. E continuava: “L’iniziativa di Mani Pulite della magistratura ha contribuito (insieme ad altri decisivi fattori) a creare le condizioni per il risanamento della nostra economia, impedendo che l’Italia precipitasse in un abisso di tipo argentino”. Chi sarà più forte in economia: il magistrato o la dirigente del Censis?

 

Per orientarci ho ripescato due “libretti” di agevole lettura per chiarezza e brevità, dedicati alle vicende dell’economia italiana (e si dice “chiarezza e brevità”, perché spesso l’una è complementare all’altra) : Storia facile dell’economia italiana dal Medioevo a oggi, a cura di Carlo M. Cipolla e L’economia italiana di L. Federico Signorini e Ignazio Visco.

 

Dal primo testo traggo subito due valutazioni, che forse faranno riflettere coloro che vorrebbero riscrivere la storia patria del secondo dopoguerra, dipingendola come una vicenda fallimentare. La prima: “Nel 1945, alla conclusione del conflitto, il reddito per abitante degli italiani era ritornato a livelli non superiori a quelli d’inizio secolo: due generazioni di lavoro e di accumulazione se n’erano andate in fumo. Grande crisi, fascismo e guerre lasciavano l’eredità di un’economia non solo molto impoverita, ma anche eccessivamente dominata dallo stato, chiusa al commercio e alla trasmissione internazionale delle tecniche. Fu da queste basi che dovette partire una ricostruzione che tutti pensavano sarebbe stata lenta e penosa”. La seconda: “Il bilancio economico del quarantennio postbellico è, in termini quantitativi, a dir poco lusinghiero. Certo, nulla di simile era stato - anche lontanamente - nelle speranze dei padri della repubblica. Un reddito nazionale cresciuto di circa cinque volte dal 1950 al 1990 colloca l’Italia fra i paesi a più elevato tenore di vita nel mondo”.

 

Queste considerazioni non sono inserite in un instant book, ma in una ricerca storica di lungo periodo, sintetizzata sotto la guida di uno dei più valenti storici economici internazionali di cui l’Italia abbia goduto. Dovremmo ritenere dunque che la comparazione con altre epoche e la visione complessiva di un ampio itinerario, possa aver condotto ad una valutazione oggettiva dei fatti o a proferire, almeno, qualche parola di equilibrata verità. E sa il cielo quanto bisogno vi sia  di “equilibrio” discorrendo dei fatti svoltisi sotto la prima repubblica.

 

Un equilibrio che non manca nell’altro saggio citato di Signorini e Visco, dirigenti del servizio studi della Banca d’Italia. Gli autori ci ricordano che negli anni Cinquanta e Sessanta (gli anni del “miracolo economico”) l’Italia raggiunse rapidamente un livello di reddito e una struttura produttiva non molto distanti da quelli di paesi di più antica industrializzazione. Tutto questo è noto; meno frequentemente - aggiungono - si rammenta che anche dopo il 1970 il ritmo di sviluppo ha continuato ad essere, anche a paragone di altri paesi, tutt’altro che modesto. Infatti tra il 1970 e il 1995 il Pil italiano è cresciuto, a prezzi costanti, dell’88 per cento. Tra i cinque paesi maggiori, solo il Giappone è cresciuto in misura molto superiore (145 per cento). Gli Stati Uniti sono cresciuti poco più dell’Italia (98%); gli altri paesi sono cresciuti meno (Francia 84%, Germania 73%, Regno Unito 67%). Quanto poi al prodotto reale pro capite, la situazione è ancora migliore: tra il 1970 e il 1995 è cresciuto del 75 % in Italia, contro il 62 % della Francia, il 59 % del Regno Unito, il 55 % degli Usa, il 32 % della Germania. Solo il Giappone ha mantenuto ritmi di crescita superiori: oltre il 100% tra il 1970 e il 1995. Ma l’Italia batte anche il paese del Sol Levante per produttività nel settore manifatturiero: fatto 100 per il 1970, la nostra produttività in tale settore risultava pari a 285 nel 1995, contro 244 del Giappone (e 174 della Germania e 214 della Francia).Per quanto riguarda infine il potere d’acquisto, il reddito italiano basato sul concetto di “parità di potere d’acquisto” è simile a quello dei paesi più ricchi del mondo.

 

“L’Italia è dunque - osservano gli autori - una delle maggiori economie al mondo per dimensione del Pil ; ha avuto anche negli ultimi venticinque anni una crescita soddisfacente rispetto agli altri paesi industriali; ha un reddito pro capite elevato e una ricchezza crescente”. Ciò ha giovato a migliorare lo standard di vita. Nel 1993 la speranza di vita alla nascita era pari a 77,6 anni in Italia (contro i 76 di Usa e Germania); in circa vent’anni la vita attesa si è allungata nel nostro paese di quasi sei anni.

 

E’ tutto oro quello che luccica? No. Lo studio del professor Cipolla ricorda i limiti “qualitativi” del nostro sviluppo: il divario tra Nord e Sud, l’ancora ineguale distribuzione personale del reddito, l’insoddisfacente stato dell’istruzione superiore e della ricerca scientifica pubblica e privata, la debolezza delle infrastrutture di comunicazione e trasporto, oltre all’enorme livello raggiunto dall’indebitamento pubblico. Sono “vizi” ripresi anche nella ricerca di Signorini e Visco: non sono state prese “... nella dovuta considerazione le compatibilità generali, a costo di accumulare squilibri crescenti, da scaricare sulle generazioni successive. Conflitti irriducibili sulla distribuzione del reddito hanno innescato, a più riprese, spirali inflazionistiche in cui prezzi e salari si inseguivano a vicenda in un gioco a somma negativa. Il debito pubblico si è progressivamente accresciuto sotto il peso di pretese irrealistiche, mutuamente incompatibili, e di promesse irresponsabili, mantenute nell’illusione che il momento di fare i conti si sarebbe potuto rinviare indefinitamente”: sta forse qui – dott. Caselli – la causa principale di quello che ha indicato come un debito pubblico “insopportabile”!

 

Ora, le responsabilità “negative” ricadono sul complesso delle forze politiche, sociali ed elettorali in campo, come naturalmente i “meriti” descritti poco sopra, sono da ascrivere alla complessa iniziativa delle classi sociali e politiche italiane tra gli anni 1950-1990.

 

Ma anche qui va fatta chiarezza. L’economista Paolo Savona ha ricordato al proposito che molti suoi colleghi - divenuti poi consiglieri del principe o principi essi stessi e grandi propugnatori di rigore “secondo i parametri europei di Maastricht” - nei decenni precedenti gridavano “troppo poco, troppo poco” contro il governo, invocando la “sostenibilità” dell’allargamento ulteriore del debito pubblico. Altri due studiosi, Maurizio Ferrera ed Elisabetta Gualmini, in un libro edito nel 1999 da Il Mulino e intitolato Salvati dall’Europa?, ricordano che “molti degli europeisti più integerrimi di oggi, vent’anni fa militavano sul fronte opposto”. Eppoi, altro che “sterzata di Mani Pulite” sul fronte economico: Ferrera, docente di Scienza dell’amministrazione a Pavia, spiega che “l’agenda del risanamento è stata in buona misura messa a punto proprio negli anni Ottanta”. Sono dunque gli anni del centro-sinistra pentapartitico guidato da Dc e Psi - “gli anni del Caf”, puntualizza “sorprendentemente” una recensione del Corriere della Sera - in cui, nel bene e nel male, “è maturata la lunga gestazione dell’Italia europea”(cfr. Riccardo Chiaberge, “Moneta unica: tutto merito del Caf?”, in Corriere della Sera del 27 novembre 1999).

 

Sulla questione appena riportata - si parva licet -  potremmo ancora ricordare che fu la sinistra massimalista (quella che poi inseguirà la deriva giustizialista e forcaiola del decennio di fine secolo) ad opporsi con più veemenza tra la fine degli anni ’70 e i primi anni ’90: alla prima iniziativa europea di controllo delle fluttuazioni valutarie, votando contro l’adesione allo Sme (il settimanale Rinascita la bollò come un tentativo di legare le mani dell’Italia a quella di paesi “ancora più crudelmente classisti del nostro”); alla politica di controllo dell’inflazione, promovendo il referendum contro il blocco degli effetti inflazionistici della scala mobile; alla abolizione del voto parlamentare segreto sulle leggi di spesa ( il presidente del consiglio del tempo, Bettino Craxi, venne dipinto come un tiranno per aver proposto ed ottenuto che anche sulle leggi di bilancio fosse abolito questo voto “di scambio” segreto tra gruppi di pressione trasversali di minoranza e maggioranza a danno delle indicazioni del governo rivolte a restringere la spesa pubblica); alla politica economica del governo Amato dei primi anni ‘90, che pur in un clima di precarietà istituzionale produsse la più imponente azione di rientro dall’inflazione e dal debito della storia repubblicana.

 

In conclusione, questo breve excursus può servire a ristabilire, almeno in parte, delle verità storiche tenacemente disconosciute – a destra e a sinistra – dai facitori del “nuovo corso” degli anni ’90 per meglio “criminalizzare” quei responsabili politici dei decenni precedenti che avevano costruito governi di orientamento di centro-sinistra, basati sull’alleanza fra forze cattolico-democratiche, laiche e socialiste.

 

Ora, chi per coerenza vuole continuare ad avere una prospettiva da coltivare, non può accettare che il proprio passato venga ferocemente distorto. L’esortazione a coltivare la storia, a non farsi “mettere sotto” dalle mode, dalla politica politicante di falsi liberali e di pseudo progressisti, dalle campagne editoriali e mediatico-giudiziarie, l’invito insomma a fondare la politica sulla cultura, sull’attaccamento alla memoria, sul rifiuto del semplicismo, deve essere pienamente colto e praticato dagli uomini di leali e miti intenti.

 

A tale proposito concluderei menzionando il convegno su “La politica economica negli anni ‘80” promosso il 21 febbraio 2003 a Roma dal Centro studi “Gino Germani”, con il coordinamento di Gennaro Acquaviva. Qui, alla presenza di relatori di grande serietà ed attendibilità come Antonio Pedone, Giuliano Amato, Luciano Pellicani, Antonio Badini, Innocenzo Cipolletta, Francesco Forte e Rainer Masera, è stato ribadito - a beneficio di tutti gli immemori più o meno consapevoli che hanno caricato di demagogiche accuse il centro-sinistra penta-partitico - che “il risanamento della nostra economia, conti pubblici compresi, risale proprio a quei famigerati anni ottanta, nei quali si gettarono le basi che permisero al Paese di presentarsi in regola all’appuntamento con l’Europa: dal blocco della spirale inflazionistica avviato con il famoso accordo sulla scala mobile, alla ristrut-turazione del sistema produttivo, alla crescita economica; la vera svolta sul fronte dei conti pubblici si ebbe proprio negli anni ’80 con l’introduzione dei primi piani di rientro, del Documento di programmazione economica e finanziaria, con le riforme dei mercati finanziari e il rispetto dei vincoli derivanti dall’appartenenza all’Unione europea; il tutto accompagnato dal sostegno pubblico alle attività produttive e da una particolare attenzione alla spesa sociale che non subì particolari traumi pur evitando gli sprechi precedenti”. Parole fuori di senno?

 

LIBRI:

Carlo M. CIPOLLA (a cura di)

“Storia facile dell’economia italiana

dal Medioevo a oggi”

Il Sole 24 Ore – Mondadori ed.,  Milano, 1995

 

L. Federico SIGNORINI - Ignazio VISCO

L’economia italiana

Il Mulino ed., Bologna, 1997 -

 

Maurizio FERRERA - Elisabetta GUALMINI

Salvati dall’Europa?

Il Mulino ed., Bologna, 1999 -

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