Come mi sono ritrovato a scivolare sulla neve con la gamba viola e tratti di carne viva: quando un errore può costare caro in montagna
Rapito dalla Montagna anni fa, pratica escursionismo, percorre vie ferrate e frequenta qualche falesia e palestra di roccia.
Sto scivolando in un canalone di neve marcia, lentamente ma inesorabilmente. Sono consapevole di quello che sta accadendo e ne conosco la causa. Guardo verso il basso, provo a puntare lo scarpone sinistro con i ramponcini e i bastoncini nella neve, ma senza successo. Il manto nevoso è talmente poco coeso che sembra si sciolga. La mia posizione in questa scivolata è strana. La gamba sinistra allungata verso il basso, mentre quella destra è ripiegata sotto di me in modo che risulti appoggiato dal ginocchio al piede, senza essere seduto. Praticamente sono quasi in piedi se non fosse per l’inclinazione del terreno. Ho i pantaloncini corti, la pelle della tibia grattugia sui grumi di neve più duri. Non ho paura. Ho visto che il canalone finisce pianeggiando e non ci sono sassi sulla mia traiettoria, né tantomeno baratri ad inghiottirmi.
Non dico una parola e penso solamente a come fermare questa lunga scivolata. Nick mi sta riprendendo con la telecamerina quasi casualmente (non se lo aspettava, voleva solo scattare qualche foto del traverso sul canalone). Il mio unico pensiero è solo rivolto alla fatica in più che dovrò sostenere per risalire al sentiero militare sgombro di neve dove mi stava aspettando l’amico antropologo e alla nuova picozza lasciata nel garage di casa.
Ma come mi sono trovato in questa assurda situazione? Ho aspettato qualche giorno prima di scriverne, per far sedimentare ricordi precisi, sensazioni, movimenti. La fortuna del caso ha voluto che succedesse in un posto “sicuro” ed ora posso ricordarlo come una preziosa esperienza che mi farà da lezione. Ma se fosse successo su un ghiacciaio di quelli che ogni tanto percorro? Se ci fosse stato un salto di roccia o uno spuntone contro cui sarei andato a sbattere? Questi pensieri mi hanno tormentato soprattutto nei giorni successivi.
Al momento io e Nick ci abbiamo riso sopra rivedendo le immagini e la ripresa in diretta. Poi abbiamo ripreso il nostro trekking senza quasi pensarci, catturati dalla bellezza dei paesaggi della catena del Lagorai. Facciamo quindi un passo indietro per vedere cosa è successo quella domenica di fine giugno.
Ispirato dai resoconti dell’enciclopedico amico Alessandro Ghezzer sul suo blog “Girovagando in Trentino”, Nick Ravannah mi aveva proposto una salita alla Cima Stellune a 2600 metri nel cuore dell’amato Lagorai. “Paesaggi che variano dal verde più vivo a pietraie marziane nel giro di un paio di chilometri, e spettacolari viste sul Lago Stellune, la Val Moena, la Cima d’Asta…”.
Adesione incondizionata da parte mia e alle 8 siamo già al Ponte Conseria in Val Campelle. Non credo troveremo neve ma per sicurezza (!) infilo i ramponcini nello zaino perché “chissà che sul versante nord da cui saliremo non ce ne sia bisogno”. Nick non li ha nemmeno portati, sicuro che per 10 metri di neve non sarebbero serviti. Dopo qualche tornante di forestale saliamo con pendenze lievi e piacevoli verso Malga Valsorda lungo il sentiero 317. Primi incontri agresti di rododendri in fiore, pecore con agnellini di qualche giorno, mucche curiose e felici.
Piccole pause per rifocillarci, e al bivio con il sentiero 318 teniamo la sinistra fiancheggiando i laghetti delle Buse Basse fino alla Forcella Valsorda. Qui lo scenario cambia: dal trionfo delle gradazioni di verde siamo ora su una lingua di neve che aggira il fianco della Cima Stellune fino alla Forcella di Val Moena. Qui incontriamo due arzilli e attempati amici che vanno a zonzo provenendo dal Montalon ma senza una metà precisa: vagano in balia dei 2 cani che li accompagnano i quali non sentono altra attrazione che per le numerose marmotte che fischiano continuamente per i “pericolosi” intrusi.
Giunti al bivio per la ripida ascesa alla vetta approviamo la definizione di Ghezzer circa il paesaggio marziano: se non fosse per la bellezza del Lago Logorai con le sue acque blu cobalto chiazzate di ghiaccio in discioglimento e le per la vista su una Val Moena a nord che pare dipinta di verde acceso e dai dolci pendii laterali, guardando la pietraia dove stiamo camminando su accenni di gradini composti in attesa della Grande Guerra dai Kaiserjäger, sembrerebbe di essere sul pianeta rosso.
Fino a quel momento le pendenze sono state clementi: ma ora il sentiero si impenna con rapidi tornanti tra blocchi di porfido. Abbiamo fatto circa 9 chilometri e personalmente avverto la fatica: la scarsa colazione con latte di riso scaduto si fa improvvisamente sentire e gli ultimi 100 metri sbuffo come una locomotiva in panne, ma comunque arrivo alla croce a 2600 metri.
Il cielo nel frattempo si è coperto di nuvole ma non minaccia temporali. Arriva sgranato un gruppo di 12 escursionisti che non smettono un solo secondo di esternare meraviglia per l’indubbio spettacolo del panorama circostante. Divoriamo i nostri panini e qualche barretta e scendiamo in aree più silenziose: anzi, decidiamo di compiere il periplo di questa superba cima anche se non è chiaro se il percorso sarà libero da ostacoli.
Affrontiamo la ripida serpentina tra massi più o meno stabili e ahimè comincio a sentire un consistente dolorino ai legamenti delle ginocchia non troppo allenate a causa di un mese, quello di maggio, che non ha favorito le uscite sui percorsi in quota. Giunti al bivio con il Sentiero E321 sul Trekking delle Leggende, la musica cambia: la neve in alcuni punti ci fa salire o scendere per pietraie. A volte con cautela attraversiamo lingue di neve che arrivano in basso e in prossimità di una cascata, o meglio di un colatoio, visto che il cordino di acciaio è sepolto, passiamo uno alla volta tra la roccia e lo spessore della neve, cercando di non scivolare. Ora la picozza ci vorrebbe proprio ma, pur se pronti a tornare indietro, valutando attentamente la situazione, decidiamo di proseguire. Ormai siamo in vista della Forcella Busa della Neve. C’è solo un ultimo traverso su uno scivolo di neve molto largo, ma guardando dove finisce non sembra essere pericoloso.
Nick decide di passare sempre tra la roccia e lo spessore di neve, usando le mani su qualche passaggio di secondo grado (e quindi semplice) alla ricerca di qualche appiglio. Io invece decido di calzare i ramponcini perché ho dito piagato per l’uscita del giorno precedente alla palestra di bouldering. La carne viva della piaga non mi permetterebbe di stare aggrappato alla roccia e quindi passerò con attenzione sulla lingua di neve. Giunto a metà devo abbassare la mia linea di attraversamento per non andare contro la roccia affiorante.
Ed eccomi giunto alla disattenzione: per abbassarmi allungo il tallone sinistro verso il basso con la punta verso valle, girando quasi con la schiena a monte, convinto che i ramponcini avrebbero tenuto e con le racchette ben conficcate nella neve. Errore fatale: inizio a scivolare verso il basso, lentamente e poi sempre più veloce; cerco arrestare la scivolata in qualche modo, ma nulla da fare! Mantengo la calma, non dico nulla, ma mi maledico per l’errore commesso. Mai distrarsi, procedere lateralmente a gambe larghe e quasi a carponi verso il pendio inclinato: non camminare in avanti quando l’inclinazione del terreno aumenta, ma lateralmente!
Alla fine dopo una settantina di metri mi fermo puntando con decisione una racchetta fino alla manopola! Ora dovrò risalire con calma e ragionando per non commettere altri passi falsi. Silenzio assoluto: dico a Nick che va tutto bene. La gamba ripiegata sotto di me è di un lugubre colore viola per l’attrito con la neve. La pelle mi brucia e in certi punti si stacca lasciando tratti di carne viva. Se ci fosse stato un salto di roccia sarebbe stato fatale e quindi ringrazio la mia buona stella per avermi permesso di fare esperienza senza farmi del male! Mai più una leggerezza del genere!
Risalgo alla massicciata militare e alla forcella ritiro il fiato. Nick mi rincuora ma sono avvilito per l’errore commesso. Siamo troppo lontani però per star lì a rischiare di prendere anche un temporale e ripartiamo in discesa ancora per le pietraie che ci portano alle trincee che costeggiano in alto il Rio Valsorda. Ora in discesa i legamenti del ginocchio destro mi fanno un male boia. L’effetto calante dell’adrenalina mi svela che nella scivolata il ginocchio ha fatto qualche torsione e la tibia ha preso qualche colpo. Cerchiamo un sentiero che non c’è per raggiungere il cosiddetto lago effimero di Rocco, fino a quando individuiamo un canalone erboso da cui scendere, ripidissimo e per me infinito. Scendo un passetto alla volta facendo attenzione a non scivolare, sorreggendomi ai bastoncini e alla gamba sinistra. Nick saltella giù come uno stambecco e mi aspetta in riva al Rio. Dopo 15 minuti lo raggiungo tutto sudato per il dolore sordo. Se penso che mancano quasi 8 chilometri alla macchina mi viene la lacrimuccia.
Ma la prospettiva di una agognata birra fresca mi mette vigore: risalendo il Col della Palazzina il dolore cala perché il ginocchio non viene caricato. Poi però, scendendo verso malga Conseria, riprende il tormento.
In qualche modo mi trascino fino alla Malga dove il pietoso Ravannah ha ordinato un media anche per me che giungo con almeno 20 minuti di ritardo. Ma ormai è fatta: l’amica barista ci offre uno spuntino con pane formaggio e speck e ci consiglia di non scendere per il sentiero breve e ripido che ci riporterebbe in poco al Ponte Conseria, perché è impraticabile a causa degli schianti dovuti alla tempesta Vaia. Buon per me che posso evitare l’erta discesa. Optiamo per l’ultimo doloroso tratto di sentiero che finalmente ci porterà alla forestale usata come ippovia che dolcemente, dopo oltre 20 chilometri e un dislivello totale ragguardevole ben oltre i 1500 metri, mi porterà alla mia fedele Rifattona a 4 ruote motrici, stanco, dolorante e avvilito. Mai essere troppo sicuri in montagna perché un piccolo errore può, a volte, essere irreparabile e la prossima volta, pantaloni lunghi e picozza.
Ph. Nicola Pagano e Ivo Cestari